Un piacer serbato ai saggi, o sia La dilettevole professione del critico musicale – Premessa

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Premessa

Nel corso del Novecento, secolo in cui le teorie della comunicazione e dell’ermeneutica assumono grande valenza, muovendosi nelle nebbie dell’indeterminatezza supportata in campo scientifico dai princìpi e dai teoremi di Heisenberg, Lorentz e soprattutto di Einstein, la filosofia giunge ad affermare la non indagabilità dei fenomeni musicali.
L’asemanticità della musica diviene la trasposizione del principio di indeterminatezza di Heisenberg, tesi di cui si impossessano la letteratura e la politica con finalità non sempre condivisibili e pacifiche.
“Scrivere di musica è come ballare di architettura” avrebbe sentenziato Elvis Costello, semplificando un pensiero del secolo precedente partorito da Clara Schumann.
In verità era stato già Levi-Strauss, riprendendo l’estetica di Immanuel Kant a teorizzare la musica come “pura forma” ovvero significante assoluto e, in quanto tale, inadatto tanto ad esprimere concetti, quanto ad essere essa stessa contestualizzata.
Diversamente, ma non in netta contrapposizione, Schopenhauer aveva parlato di “formalismo arricchito”, ovvero di comunicazione di emozioni, riferendosi alla musica.
La speculazione estetica sulla materia musicale, complici le nuove grammatiche che fanno la loro comparsa nel XX secolo, subisce qualche decennio di letargo, proprio mentre la distanza tra musica cosiddetta “colta” e musica “di consumo” si fa ampio, quasi sempre per l’aristocratizzazione della prima e la mercificazione della seconda; ma è argomento che merita approfondimenti.
La globalizzazione che interviene nel secondo dopoguerra e in forma massiva a partire dagli anni ’90 post-guerra fredda, riporta in auge il tema ermeneutico e Nattiez, nel 1987, scrive acutamente: “La musica è un metalinguaggio, e in quanto tale è una mediazione.
Ciò significa che nessuna interpretazione esaurisce in sé la sua missione esplicativa: si è sempre condannati all’incompletezza”
Riecheggia l’indeterminatezza, ma in chiave decisamente democratica e aprendo uno spazio di “codificazione” comunicativa alla musica.
Rimane irrisolta la questione del linguaggio da adottare per “dire di musica”, sembrando che per argomentare di essa occorra adoperare la musica stessa, generando un paradosso tautologico solo apparente.
La soluzione del problema linguistico risiede nella polisemia e nella sinestesia che, in questo come in molti altri ambiti, ci viene in soccorso permettendoci di includere nell’insieme di espressioni di un campo, quelle appartenenti già ad altro insieme: la funzione che genera la corrispondenza, ricorrendo ancora all’efficace dizionario insiemistico, è la metafora.
D’altra parte, proprio il Novecento era stato fertile di termini sinestetico-metaforici, avendo coniato il calore bianco, le emozioni elettrizzanti, guerre fredde o quasi ossimoriche tregue armate.
La musica, come ha recentemente sostenuto Daniel Barenboim in un’intervista «anticipa i processi cui l’umanità va incontro, parlando alle sensibilità, alle pance degli ascoltatori, quelle stesse che orientano le dominazioni e i destini del mondo»
Le inclusioni sinestetiche sono fin da tempi remoti state acquisite nel “parlare di musica” e soprattutto nel commentarla.
Cosa sarebbero se non metafore i termini “Allegro” con gli attributi di “brio”, “moto” e persino la gradualità avversativa del “ma non troppo” e cosa altre espressioni come “colore vocale chiaro”, “sonorità morbide”, che attingono esplicitamente a sinestesie?
In definitiva l’estetica musicale nel corso del XIX secolo sancisce e conferisce sistematicità a quanto la musica eseguita conosceva dalla notte dei tempi: Il linguaggio musicale si esprime per aggettivi, lasciando all’ascoltatore la gran parte dei sostantivi.
Qui l’estetica kantiana e quella di schopenhaueriana trovano un incrocio da cui la critica musicale può intraprendere il viaggio lungo itinerari che ciascuno può liberamente tracciare.
Da questa premessa filosofica è possibile fare originare la trattazione della critica musicale, della sua natura, delle sue prerogative, dei suoi limiti, degli ambiti cui può riferirsi, della sua storia, della sua attualità e del probabile futuro, ricordando, parafrasando Barenboim, che se la musica anticipa, la critica non può che seguire, magari solo un passo più indietro, ma pur sempre inseguendo quell’arte, sempre misteriosa, di cui ha la sognante presunzione di sapere e potere dire.
Sempre meglio, tuttavia, ascoltare.
Prima di entrare nel vivo della materia, a partire dalle origine storiche, riportiamo la più recente deliberazione dell’Ordine dei Giornalisti che, al primo articolo, fa riferimento al diritto di critica:

Articolo 1
Libertà d’informazione e di critica

L’attività del giornalista, attraverso qualunque strumento di comunicazione svolta, si ispira alla libertà di espressione sancita dalla Costituzione italiana ed è regolata dall’articolo 2 della legge n. 69 del 3 febbraio 1963:
«È diritto insopprimibile dei giornalisti la libertà d’informazione e di critica, limitata dall’osservanza delle norme di legge dettate a tutela della personalità altrui ed è loro obbligo inderogabile il rispetto della verità sostanziale dei fatti, osservati sempre i doveri imposti dalla lealtà e dalla buona fede.
Devono essere rettificate le notizie che risultino inesatte e riparati gli eventuali errori.
Giornalisti e editori sono tenuti a rispettare il segreto professionale sulla fonte delle notizie, quando ciò sia richiesto dal carattere fiduciario di esse, e a promuovere lo spirito di collaborazione tra colleghi, la cooperazione fra giornalisti e editori, e la fiducia tra la stampa e i lettori».

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