Un piacer serbato ai saggi, o sia la dilettevole professione del critico musicale – Focus: Il cinquantenario verdiano al Teatro San Carlo

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Focus: Il cinquantenario verdiano al Teatro San Carlo

Il melodramma, se non per pochi mesi, non si arresta nemmeno durante la tragica Seconda Guerra Mondiale, ma certo occorre circa un lustro perché nel mondo della musica si percepisca il vento di rinascita di un paese uscito provato e umiliato da uno scellerato conflitto.
Le celebrazioni del cinquantenario delle morte di Verdi diventano occasione per i più prestigiosi teatri italiani di mostrare quanto sia rimasta intatta la vitalità artistica.
Napoli ere stata la prima città a liberarsi dal giogo nazi-fascista con la volontà e il coraggio del suo popolo, prima ancora dell’ingresso delle truppe anglo-americane.
Il 1951 vede il Teatro San Carlo in grande fermento per celebrare un compositore che, stante il recente passato, tornava a ricoprire, a cinquant’anni dalla morte, un ruolo unificante e vivificatore di un orgoglio patriottico, libero dai nazionalismi autoritari.
È Renata Tebaldi il soprano più amato a Napoli che eleggendola, quasi sottolinea la storica contrapposizione con Milano e il Teatro alla Scala, quest’ultimo di fede callasiana.
Giovanna d’Arco, eroina eponima dell’opera di Verdi, permette all’austera Renata Tebaldi di entrare metaforicamente in armi a ravvivare l’orgoglio di una città mai doma.

Scrive Il Giornale del 28 gennaio 1951:

«Intorno all’opera tutta viva di Giuseppe Verdi, intorno alle sue creature straziate dal dolore, arse dall’odio, trasfigurate dall’amore, redente dalla morte, in questo mezzo secolo che è

Rassegna stampa da Archivio Teatro di San Carlo
(per gentile concessione)

corso dal triste, piovoso giorno della fine della sua esistenza terrena, l’indagine critica, serena, amorosa, acuta, sembra aver dato fondo al suo compito».
Dando cronaca di una mostra allestita nel ridotto del Teatro San Carlo, il giornalista, con gusto letterario, scrive:
«In Teatro, Giovacchino Forzano ha brevemente parlato del grande trageda, ricordando le fatidiche parole che Roberto Bracco pronunziò a Vienna un mese dopo la morte di Verdi, e sottolineando il concetto che il nome di Verdi, ricordato con venerazione in tutto il mondo, da parte d’ogni fede politica, suona simbolo di pace e di unione fra tutti gli uomini»
Quasi però sminuendo quelle stesse celebrazioni, più avanti Il Giornale prosegue:
«Forse una sola è stata la celebrazione verdiana registrata in questo mezzo secolo, e fu la sola degna, nobile, necessaria.
Fu quella che Arturo Toscanini realizzò in circa un decennio, dal ’20 al ’30, nel periodo in cui le tormentose ricerche di nuove formule, il male che rodeva alla base il tramontante melodramma, lo snobismo della moda musicale, lo scetticismo delle generazioni nuove, la stessa abile propaganda estera, avevano gettato un’ombra sul melodramma verdiano.
Toscanini restituì Verdi a se stesso. Fece rivivere le visioni verdiane nella loro sede naturale – il teatro – in modo indimenticabile»
Il critico ci parla dell’edizione del Trovatore del cinquantenario, esprimendo rammarico per il declino del panorama di voci che esprimeva, “solo” Giacomo Lauri Volpi e Maria Callas, entrami bacchettati per le intemperanze stilistiche il primo e addirittura per la superficialità drammatica la seconda:
«…Quanti pochi cantanti possono, infatti, oggi, incarnare degnamente le michelangiolesche figure verdiane!
L’Ente del San Carlo, che ha fatto ancora ricorso alla tradizione con un direttore quale Tullio Serafin per la concertazione e al direzione dello spettacolo ed ha chiamato a raccolta nomi assai quotati della scena lirica, designati a dar voce a figure così intensamente drammatiche.
Ed ha allineato: in prima linea il tenore Lauri Volpi, che, se ha peccato nel distruggere il legato e quelle quadrature che sostengono il disperato, prodigioso canto di Manrico, ha profuso generosamente i suoi squillanti acuti, mirando più all’effetto esteriore e spettacolare che alla nobiltà e verità drammatica; cosi che ha vellicato nella tradizionale cabaletta della “pira”, con l’acuto finale che Verdi non scrisse, gli istinti sportivi del grosso pubblico, che ha applaudito con tenacia e richiedendo un bis non ottenuto; poi Maria Callas, cantante dotata di una voce estesa, voluminosa, tipicamente drammatica, necessaria a sostenere l’ardua tessitura della parte di Leonora, e che s’è fatta valere anche se non ha conferito quella duttilità e quella interna emozione d’arte che questa eccelsa figura verdiana esige»
Il quotidiano fondato da Matilde Serao, nell’edizione del 12 marzo 1951 titola “In attesa della Giovanna d’Arco” e nel corpo, garbatamente, propone l’eterna competizione tra il San Carlo e la Scala, anche rimarcando il maggiore valore dell’operazione di riproposizione celebrativa di un titolo caduto in oblio, rispetto a proporre la prima esperienza operistica del Verdi esordiente.

«Probabilmente la esumazione di questa dimenticatissima tra le opere verdiane costituirà l’apporto più notevole dei nostri Enti Lirici alle celebrazioni cinquantenarie del grande musicista. Vivissima è, infatti, l’attesa degli ambienti musicali italiani per l‘esecuzione di giovedì prossimo, nella quale, occorre appena dirlo, il San Carlo si impererà a fondo.
Se l’esumazione dell’Oberto conte di San Bonifacio, testé attuata alla Scala, ha avuto un significato quasi esclusivamente sentimentale, quella del San Carlo, avendo per oggetto un melodramma della epoca immediatamente susseguente alla consacrazione del Nabucco, e precedente di pochi anni i frutti meridiani della Trilogia immortale (Rigoletto, Travia e Trovatore), punta arditamente sulla rivalutazione extracelebrativa di un’opera che sembra racchiudere non poche pagine di sicuro (se non proprio folgorante) valore artistico»
Più avanti il critico si sbilancia, pur maliziosamente dichiarando, retoricamente, di volerlo evitare:
«Naturalmente non intendiamo in questa sede, anticipare giudizio; solo possiamo dire, avendo dato una scorsa allo spartito e avendo ascoltato qualche prova in teatro, che l’ambiziosa speranza dell’Ente Autonomo, di rimettere in circolazione un’opera ingiustamente dimenticata del nostro più grande drammaturgo, è tutt’altro che mal fondata o, come oggi uso dire, gratuita.
Il San Carlo, dunque, sparerà tutte le sue cartucce nell’esecuzione di giovedì. Tre interpreti di cartello, da Renata Tebaldi al giovane tenore Penno e al baritono Savarese, daran voce ai personaggi principali dell’opera; le robuste e voluminose scene di Crostini inquadreranno i movimenti delle masse guidate da Enrico Frigerio: e non è a dire quale garanzia sia per offrire la presenza, sul podio, di un direttore della statura e del giovanile fervore di Gabriele Santini»

Il Corriere di Napoli del 16 marzo 1951 ci lascia una recensione entusiasta a firma Tito Ceccherini dal titolo: “La Giovanna d’Arco di Verdi in uno spettacolo di fasto incomparabile”, con un incipit interrogativo di grande efficacia comunicativa:
«È stata mai rappresentata a Napoli la Giovanna d’Arco di Verdi? L’interrogativo è interessante, ma, almeno per il momento, non è facile darvi una risposta precisa.
Il Florimo, nel quarto volume della sua opera sui Conservatorii e sull’attività musicale napoletana, non ne dà notizia; ma il Florimo, come si sa, andrebbe riveduto da capo a fondo, giacché, se come impostazione generale si mostra di fondamentale interesse, ad un semplice esame sommario, si dimostra scompleto ed inesatto nei dettagli»

Ancora “Il Corriere di Napoli, a firma Tito Ceccherini, sotto un titolo nominativo, ma non fantasioso come “Il Trionfo della Tebaldi nella “Traviata” al S. Carlo”, parla nel sottotitolo di “Sfarzo abbagliante del nuovo allestimento”.
Il critico dedica oltre duemila battute alla figura del grande soprano, nelle quali leggiamo:
«Uno dei suoi primi trionfi napoletani, se non il primo, Renata Tebaldi l’ottenne appunto con la Traviata. Fu una rivelazione per coloro che non la conoscevano, e per gli altri fu, come sempre, la gioia di ascoltarla e di vederla «vivere» il suo ruolo»
E poi nelle parole del giornalista affiora la cronaca e con essa una considerazione davvero intelligente:
«Nell’attesa di questa odierna edizione del capolavoro verdiano sorgeva sottile il dubbio che ella potesse riuscire a superare non già la «Violetta» di allora, quanto piuttosto il ricordo che l’attrice-cantante aveva lasciato di sé con quella mirabile interpretazione»
Ceccherini usa con cura le espressioni e, definendo Tebaldi “attrice-cantante”, punta proprio sulle capacità meno riconosciute all’immensa artista la cui tecnica e la cui purezza vocale non conoscevano rivali, ma che i detrattori ritenevano “poco attrice”. Il gioco retorico del confronto tra ricordo, aspettativa e ascolto nel presente prosegue nell’articolo:
«Si sa che i ricordi sono pericolosi, giacché, attraverso il tempo, essi sembrano venir come patinandosi di speciale bellezza, acquistando un fascino nostalgico che è quanto mai difficile combattere»
La lunga premessa del lead e della sua espansione, conduce al focus che è recensione, con un’avversativa retorica dal sapore quasi sportivo, come per illustrare la gara tra presente e ricordo, ma anche per incoronare una vincitrice assoluta su una rivale che nell’articolo è la Convitata di Pietra:
«Ma Renata Tebaldi ha vinto ancora una volta, e non certo di stretta misura. Ha vinto con tutti gli onori della vittoria più clamorosa e completa, la qual cosa fa ripensare con meraviglia sempre maggiore al fatto che qualcuno abbia potuto trovare lacune ed imperfezioni nella interpretazione particolarmente felice che essa dà proprio di questo personaggio verdiano»
Ma ora è giunto, per il critico, il momento di fare leva sugli elementi vincenti della divina Renata:
«Ancora una volta ella si è affermata indiscutibilmente grande per arte di cantante e bellezza di voce: grande nel rendere l’intimità della sofferenza, del dolore, dello strazio: l’immensità di un amore che è dedizione totale, senza confini, né limiti né barriere»
Non resta che rispondere alla domanda retorica: a chi è piaciuto? E Ceccherini sceglie un linguaggio diretto:
«Chiunque sia stato presente in teatro non può avere assistito indifferente alla commozione di cui ella vibra nella scena con Germont»
E più avanti:
«…ed infine in quel famoso “Amami Alfredo” in cui pienezza di voce e spasmodica intensità passionale vengono a fondersi in uno scatto magnifico.
Né da meno ella è apparsa nei due quadri seguenti.
Tanto la drammatica scena del ballo, quanto l’atto ultimo (che resta sempre una delle pagine più belle del repertorio verdiano) sono momento su cui l’arte di lei assurge a potenza espressiva talmente eccezionale da giustificare pienamente le deliranti ovazioni che il pubblico le ha tributato fin dal suo primo apparire in palcoscenico e via via alla fine di ogni atto quando a viva voce veniva chiamata al proscenio per un numero interminabile di volte, tanto in compagnia del Direttore d’orchestra e degli altri interpreti, quanto del tutto sola»
Non per piaggeria, ma per condivisione di entusiasmo, Ceccherini dedica un breve ritratto all’allora sovrintendente:
«Alla prova generale gli occhi di Pasquale Di Costanzo erano lucidi di gioia e, francamente, via, non si poteva dargli torto»
Dovevano andare di moda gli incipit interrogativi se, dalle pagine de L’Unità, niente meno che il grande compositore Achille Longo, a proposito di Giovanna d’Arco scrive:
«Vi siete mai domandati che posto avrebbe oggi Verdi nella storia del melodramma italiano, se fosse morto a 34 anni, età in cui morì Vincenzo Bellini?
Bellini aveva fatto in tempo a comporre capolavori come La Sonnambula, Norma e I Puritani; Verdi, a 34 anni era arrivato solo al primo Nabucco, Giovanna d’Arco, a I Masnadieri, opere di cui solo Nabucco, in successive rielaborazioni s’è salvata col tempo»
Il tono del Maestro appare ben lontano da quello celebrativo dominante e teso a esaltare i meriti di un compositore “napoletano” come Bellini.
E Longo prosegue, trascurando l’esempio di Rossini, longevo, ma ritiratosi dalle scene a soli 37 anni:
«A rigor di logica ci sarebbe da concludere che un Bellini longevo ci avrebbe dato, in rapporto, ancor più di un Otello o di un Falstaff, mentre viceversa, un Verdi morto giovane, sarebbe oggi relegato sì e no in dieci righe delle storie della musica.
Ma è inutile fare la Storia con i se!»

Renata Tebaldi

«Ci avevano dato a intendere che la Giovanna d’Arco di Giuseppe Verdi fosse ciarpame; zavorra da buttare via perché la navicella dell’ingegno verdiano, alleggerita potesse correre migliori acque. La rappresentazione dell’opera avvenuta al San Carlo di Napoli, con incredibile sfarzo, ha provato il contrario»
Il sostantivo sfarzo ricorre in molti articoli di presentazione e soprattutto nelle recensioni del debutto verdiano, ma la penna di Pannain è troppo fine per soffermarsi sulla cronaca, preferendo stigmatizzare la superficialità di alcuni colleghi:
«È stata una lezione. Strano a dirsi, un teatro che si mette in cattedra. Ma quando la storia della musica si fa come in Italia, è possibile anche questo. Gli studiosi dell’opera verdiana, tutti d’accordo, della Giovanna d’arco si spacciare uno con un fregio di penna. L’avessero almeno sentita. Nemmeno per idea. L’avevano soltanto leggiucchiata alla meglio e poi ognuno ripeteva quello dell’altro. E fu facile prodezza avventarsi sul libretto col pugnale di Maramaldo. Ma quando mai i libretti hanno contato qualche cosa per giudicare l’opera italiana dell’Ottocento?
Ora l’abbiamo sentita questa Giovanna, a pena salvata dal macero; e ci siamo tornati. Prima di tutto, l’opera si fa ascoltare da cima a fondo.
Lo spirito del canto verdiano non ancora sa prendere forza e volume, ma già c’è qualcosa di suo che permea il suono e anima lo schema. E si appropria della convenzione che, non più sospesa nel limbo delle cose e passive, si dà un volto.
Ci sono brutte cabalette da trangugiare, è vero, e quella “stretta” del finale secondo che è un laido motivetto lucidato su un Donizetti deteriore. Ma c’è, diffuso virgola tanto succo di musica.
E poi, una grande cosa che ti coglie di sorpresa: la figura del padre, in cui gli accenti in modi che sono di Verdi e solo di lui. A Verdi, quando aveva da mettere in musica la parola figlia, gli tremavano il cuore e la mano. Giacomo, nella Giovanna d’arco, ha la sagoma di Rigoletto.
Il duetto tra Giovanna e Carlo è un continuo palpitare di cose affettuose e quando senti cantare «È puro l’aere limpido il ciel» ti pare di respirare l’aria della Traviata. Il finale dell’opera, con la morte di Giovanna, è, per commozione e forza di stile, più sostenuto e intenso che quello di Rigoletto. Giovanna muore come una eroina di tragedia classica. Ella si trasfigura nella serenità di un canto che il clarinetto avvolge di pietose armonie e gli altri, attorno, s’immergono nella musica del loro dolore con pienezza di sentimento e animo intatto. Giovanna affonda nell’armonia delle voci che la circondano, nell’orbita del suo lacrimare sereno. Renata Tebaldi, trasfigurata dalle luci orchestrate dal pittore Cristini, non era più di questa terra e anche la bacchetta di Santini che dirigeva l’esecuzione pareva scossa da un tremito di commozione»

Napoli e il San Carlo portavano in trionfo Renata Tebaldi, mentre un’altra stella, di genere maschile, si levava nel firmamento della lirica in una costellazione che a lungo avrebbe condiviso con il grande soprano pesarese: Mario Del Monaco.
Forse l’ultimo dei grandi tenori drammatici di forza incontra gli applausi del San Carlo, tra l’altro, in una produzione di La fanciulla del West nell’anno 1951, parentesi pucciniana tra le celebrazioni verdiane, cui è Alfredo Parente a darci cronaca:
«Quando per musica s’intende come si deve intendere, non tutto ciò che comunque si faccia con le note del pentagramma, ma quella sublime e divino distacco dal torbido e delirante o struggente dramma della vita, dalle sue passioni violente e dai suoi tormenti sottili e dai suoi languori, quella suprema trasfigurazione, cioè che si chiama poesia, soltanto allora si può capire questo: che la musica di Giacomo Puccini è, nel suo complesso, tolta e cioè alcune sporadiche pagine, un fenomeno para musicale, come pare a musicale e in grandissima parte la storia del nostro melodramma veristico.
E dire che della Fanciulla del West si lamentava troppo lunga assenza di una dozzina di anni dalle nostre scene, proprio quando altri arricciavano dubitosi il naso di fronte alla sommazione di un’opera verdiana che si era lasciata sotto la polvere degli archivi per un secolo intero.
Gabriele Santini ha fatto quello che doveva e che gli imponeva il criterio della fedeltà stilistica che il segreto delle sue sempre efficaci interpretazioni.
La Caniglia con qualche sforzo. Ma si sa che l’opera e specialmente nella parte del sovrano, si grida più che non si canti, ed è perciò, oltre che brutta, vocalmente massacrante. E dunque la caviglia è ancora un’eroina e ci vuol dire che la sua gola non teme neppure simili strapazzi. Mario del monaco ha assottigliato l’arte del canto e irrobustita la voce.
Il successo, moderato dopo il primo atto, e divenuto via via pieno, strepitoso con applausi anche a scena aperta. Dopo il secondo atto i cantanti sono stati chiamati, da soli e col maestro Santini, una decina di volte. All’ultimo atto un fenomeno di spietato divismo, con un interminabile applauso tra implorante e furente, quasi minaccioso, ha piegato l’inesausto tenore a cantare e singhiozzare per la seconda volta la nota romanza»
Anche il Roma non manca di salutare la presenza di Del Monaco al San Carlo:
«La presenza di due artisti cari al pubblico, Maria Caniglia e Mario del Monaco, ha reso ancor più gradito il ritorno del veristico dramma pucciniano sulle scene del San Carlo. La parte di Minnie è stata amata da molti vivaci soprani drammatici, ricca com’è di invenzioni sceniche e, in potenza, di bellezza espressiva. Occorre che un’interprete abbia peculiari facoltà per rivivere e realizzare il vibrante personaggio della protagonista gentile e fiera insieme»
Il Corriere di Napoli del 18 marzo, a firma di Tito Ceccherini rende conto della vocazione wagneriana del San Carlo di Napoli, ereditata dal direttore di San Pietro a Majella Giuseppe Martucci, primo interprete italiano a dirigere Tristan und Isolde.
Sia pure con il titolo italiano di “Il Crepuscolo degli dei”, il Massimo napoletano mette in scena l’ultima tavola della Tetralogia.
Con «il Crepuscolo degli Dei» si è giunti al compimento de «L’Anello del Nibelungo» e, almeno per questo anno, ha l’ultima fatica a Napoli del teatro di Bayreuth il quale ha impegnato al San Carlo una vera e propria «battaglia di idee»: cosa, d’altronde, di sommo interesse per tutti coloro, e non sono pochi, che non possono concedersi il lusso di viaggiare e di tenersi così direttamente aggiornati delle nuove tendenze. Ciò va a posto bene in rilievo perché costituisce una benemerenza dell’Ente Autonomo, a parte il fatto che le realizzazioni riescano o meno a convincere.
Ancora una volta, con questa opera, il genio wagneriano si manifesta in tutta la sua schiacciante potenza. Il soffio rinnovatore – anche se con “Il Crepuscolo“ non si è più di fronte alla pura nudità del “dramma in musica“ – l’inebriante bellezza e la spaziale immensità di respiro della titanica concezione, fanno di Wagner stesso un gigante il quale, solitamente piantato negli anfratti rocciosi dove si aprono le bocche delle caverne nibelunghi che, sollevando il braccio verso il cielo riesce a sostenere, sulla palma della mano aperta, l’intero Wahalla.
Il Teatro di Bayreuth, sotto la direzione dei fratelli Wagner, ha dato all’opera la realizzazione che logicamente era prevedibile secondo criteri ormai ben noti a proposito dei quali circolava in teatro il paragone con il sintetismo scenico delle moderne rappresentazioni delle opere di Shakespeare: ma occorre notare che era costume dei tempi di quest’autore “immaginare” la scena più che vederla, mentre con Wagner la cosa è del tutto diversa.
Che cosa dire poi di Gutruna in vestaglietta rosa o vestito “mezza sera”, in pose da “Paolina Borghese del Canova”.
L’orchestra, sempre sotto la direzione del maestro Knappertbusch se assai più viva che nelle altre esecuzione, è apparsa però non sempre precisa – ma perché non spiegare e ripetere i passi che offrono difficoltà? – Poca meraviglia suscitava il famoso “viaggio di Sigfrido sul Reno“squadrato attraverso la rigida misura piuttosto che vivo nel palpito del melos.
Il tutto, in sostanza, dava l’impressione di una buona lettura, sommamente in contrasto con l’approfondimento accurato dei ruoli vocali solisti e corali.
Eppure il teatro San Carlo e l’orchestra, che annovera solisti di provato valore, sono stati lungamente a disposizione dei dirigenti lo spettacolo! Il pubblico, ancora una volta soggiogato dalla bellezza dell’opera, ha applaudito sempre entusiasticamente e, alla fine, è scattato in una lunga ovazione.

Alfredo Parente dalla pagine de Il Mattino ci informa di un evento che vede impegnata la Philharmonia di Londra diretta da un direttore di statura epocale: Herbert von Karajan.
«La Filarmonica di Londra ci è apparsa nel complesso uno dei più perfetti organismi orchestrali di nostra conoscenza, anche se non tutti i suoi strumenti solisti brillino all’istesso modo. Essa presentò l’altra sera al pubblico napoletano il suo biglietto da visita con la Fantasia di Williams, su un tema di Tallis, per doppia orchestra d’archi; e il biglietto da visita di un’orchestra sono appunto gli archi che ne costituiscono il fondamento e il tessuto connettivo. Il resto – nella stupenda esecuzione della vaga pagina di Williams, con le affioranti voci arcaiche e la suggestiva patina cinquecentesca – veniva dall’opera di Von Karajan, che attraverso una mirabile dosatura delle sonorità e la ricerca attentissima dei colori e del movimento, trasse da quel brano un respiro poetico.
Quel piccolo demone della sensualità che veglia o sonnecchia in un angolo della coscienza di Karajan, è scattato fuori ilare e dominante (e appropriatamente) con le sue argute e scintillanti e capziose moine, nel Till Eulenspiegel di Strauss, mago di sensazioni e lusinghe fonetiche. Un’esecuzione sfavillante di fuggevoli fremiti, di sorrisi, di voluttuose carezze. Ed anche qui il virtuosismo dell’articolatissima tecnica, dipanante il gioco sinfonico in fili e guizzi di luce.
Poi la solenne e gloriosa parodia, trasfigurata in poesia, dei Maestri Cantori, di cui Von Karajan ha condotto l’Ouverture con una discorsività di rara franchezza (tranne qualche tocco di languore negli affioranti temi amorosi), e con l’andatura fervida e travolgente e trionfale che ha spinto l’uditorio al punto estremo dell’entusiasmo.
Rare volte, come l’altra sera, sono state così bene appropriate le fervide, quasi esaltate manifestazioni che gli ascoltanti della gremitissima sala, tutti in piedi lungamente nella platea e nei palchi han rivolto alla Orchestra londinese e al suo direttore, il quale in fine si è presentato da solo a cogliere le ultime voci del pubblico riconoscente.
Ammiratori del genio da qualunque parte sorga, non vogliamo qui tuttavia nascondere la nostra gioia e il nostro orgoglio di italiani per il livello altissimo sul quale ci è apparsa l’altra sera la pagina verdiana (e da pari a pari) nell’arduo paragone con Beethoven e con Wagner.
Von Karajan vi ha messo il suo meglio (e in qual modo!) Ma Verdi era lì con l’universalità e l’umanità del suo genio.
Lo diciamo lo diciamo per i difficili di gusto e con gratitudine verso Karajan e la sua orchestra, mentre sono ad un’altra prova nella patria dei Vespri.
Esecuzioni come quelle che abbiamo ascoltate l’altra sera alla San Carlo hanno una loro propria bellezza quasi a sé stante, un potere di fascino che prescinde dalla qualità stessa delle musiche eseguite».

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