In guerra, come in amore, vince chi osa. All’ AIDA del Teatro Comunale di Bologna manca il vero coraggio

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Aida è una vicenda sempre attuale. Parla di un amore contrastato dalle esigenze pratiche della politica, inquinata da brame di potere, menzogne e ire di vendetta.
L’opera, scritta in quattro atti da Giuseppe Verdi su libretto di Antonio Ghislanzoni da un soggetto di Auguste Mariette fu presentata al pubblico per la prima volta il 24 Dicembre 1871 in occasione dell’inaugurazione del Canale di Suez. Le cronache del tempo narrano che l’opera fu commissionata da Ismail Pascià, Vicerè d’Egitto, per celebrare l’avvenimento. Ma Verdi rifiutò, non gradendo comporre opere d’occasione. Quando il compositore italiano, però, seppe che la scrittura stava per essere affidata a Wagner ritornò sui suoi passi e accettò, sebbene più per gelosia artistica che per adesione al progetto.
La vicenda ruota attorno a un malsano triangolo amoroso. Aida, principessa Etiope condotta in schiavitù in Egitto, nutre un amore per Radames, generale egizio a sua volta amato da Amneris figlia del faraone. E se Aida inganna l’amato non confessando la sua genealogia reale, Radames per opportunismo e ambizione non è mai veramente lontano da Amneris. All’orizzonte incombe una feroce guerra. Amonasro – re d’Etiopia- è intenzionato a riprendersi sua figlia e, così, dominare sull’Egitto.
Quella messa in Scena al Massimo felsineo viene dal Macerata Opera Festival. Non aspettiamoci da questa Aida lo sfarzo a cui siamo abituati da rappresentazioni più canoniche. Il palco del Comunale di Bologna, pensato dal regista Francesco Micheli, si presenta minimalista.
Un piano inclinato bianco, largo quanto tutto il proscenio si congiunge ad un mastodontico pannello verticale, come a ricordare le forme di un enorme computer aperto. Su questo schermo vengono proiettate di volta in volta grafiche che costituiranno lo scheletro scenografico dell’opera.
La scelta artistica appare più chiara già all’inizio del primo atto allorquando il messaggero entra in scena con un computer portatile a mo’ di papiro o all’ingresso del coro dei sacerdoti muniti di tablet al posto dei testi sacri.
La forma di questa Aida deflagra in un grande vuoto bianco e l’Egitto d’oro e di ocra dei faraoni abbandona la sua dimensione storica per catapultarsi in un futuro indefinito.
Questo vuoto non riesce ad essere riempito dai disegni di Francesca Ballarin che, proiettati sulla scena, talvolta sembrano poco organici al contesto.
Anche gli abiti di scena, realizzati in carta plastificata bianca, sono essenziali. Della nobiltà restano i simboli (corone di cartone e maschere) più che i materiali lucenti e preziosi.
Di certo l’Opera ha bisogno di regie ambiziose e non convenzionali per rinnovare un linguaggio universale, quello musicale che si nutre di storie senza tempo. Non si apprezzano di certo i nostalgici del già visto, quelli che storcono il naso ad ogni deviazione rispetto all’ortodossia rappresentativa. Non si trova giusto, però, nemmeno plaudire al nuovo a tutti i costi. Quello che si chiede alla regia, infatti, è di accompagnarci in una visione personale attraverso una storia. Quello che si chiede alla regia, quindi, è coltivare un’idea e comunicarla allo spettatore. E’ il caso dell’Aida di Micheli?
Tutto sommato, l’Aida del Comunale di Bologna sarebbe anche ben suonata e degnamente cantata. Nel complesso piace la direzione di Frédéric Chaslin e l’interpretazione di Anna Lucrezia Garcia (che sostituisce Monica Zanettin nel ruolo di Aida) e L’Amneris di Cristina Melis. Non sono le incertezze vocali di Sergio Escobar (chiamato a sostituire Antonello Palombi) in Se quel guerriero io fossi… Celeste Aida a destare perplessità, ma l’insieme dello spettacolo. I momenti corali riuscirebbero anche a ritrovare la vérve e la personalità che manca in buona parte dei recitativi e le scene di ballo sarebbero anche belle se non fossero diluite nel complesso registico che vive di troppe stasi e pochi lampi.
Molto bella e suggestiva la scena finale con gli amanti nel sepolcro costituito dal gigantesco personal computer che, ripiegando lo schermo, li fagocita, mentre Amneris in piedi sul bordo superiore prega per la pace. Ma non basta.
I richiami futuristi non sono sviluppati in modo organico e coerente. L’idea sarebbe stata anche valida se fosse stata proposta e imposta anche ai più bigotti con forza e coerenza.
Purtroppo il futurismo di questa Aida è vecchio. Quelle che dovrebbero essere innovazioni risultano scelte sorpassate da almeno tre lustri. La proiezione di immagini su uno schermo strizza l’occhio agli anni novanta e troppe volte le scelte coreografiche fanno tornare alla memoria la saga di Star Wars datata 1977. Troppe volte in questi anni di crisi l’essenzialità è sembrata solo una coperta (corta) alla mancanza di congrui finanziamenti.
Che sia anche questo il caso? Non è dato saperlo. Di certo a questa Aida manca il coraggio di osare sul serio. Manca il coraggio o un’idea per farsi ricordare.

Ciro Scannapieco

 

Foto Casalucci ©

 

 

 

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