Pagliacci nella narrazione onirica e circense di Finzi Pasca riconquista il San Carlo

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Ruggiero Leoncavallo aveva appena otto anni quando, il 4 marzo 1865, all’uscita del teatrino di Montalto, dove la famiglia si era trasferita da Napoli, sua città natale, fu testimone dell’omicidio del suo domestico Gaetano Scavello per mano dei fratelli Luigi e Giovanni d’Alessandro, avvenuto per motivi d’onore. «L’assassino fu giudicato da mio padre che gli inflisse venti anni di reclusione per il secondo omicidio, perché ritenne che un uomo, che aveva avuto la calma di lavarsi le mani ed il coltello, aveva agito con perfetta premeditazione e non per l’impulso passionale del momento. Il condannato, che seppi poi chiamarsi Giovanni d’Alessandro, espiò la sua pena e tornò a vivere da onesto uomo, ed ebbe la sorpresa di sapere che raccoglieva larga messe di applausi sulla scena, con il nome di Canio, per opera di quello stesso che da ragazzo era rimasto terrorizzato per l’improvvisa fine tragica del povero Gaetano» (Ruggiero Leoncavallo).
Nata da un “nido di memorie” come l’autore stesso lascia intuire nel famoso Prologo o ricalcata da lavori altrui, soprattutto il Tabarin di Paul Ferrier (1874), la vicenda di Pagliacci risulta ben congegnata.
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La poetica naturalista dello squarcio di vita ci si fonde con un’ironia e un senso del paradosso già novecenteschi. Decisiva anche la collocazione fra i  poveracci di un carro di Tespi e gli umili di un villaggio sperduto. L’espediente più che collaudato del teatro nel teatro risulta così alleggerito dalla retorica»(Daniele Spini).
Ed il Prologo di cui prima abbiamo detto, espone un vero e proprio programma poetico del Verismo.
Fare tragedia in un contesto comico e con il contrappunto di scene puramente comiche è una formula di derivazione tutta francese che annovera suoi illustri precursori e contemporanei: Carmen di Bizet, Jules Massenet, Manon Lescaut e Bohème di Puccini.
Soggetto e libretto erano tutti suoi e Leoncavallo architettò una sceneggiatura coerente, dal taglio rapido, sicuro e molto cinematografico nella successione delle scene, rispondendo ad un’esigenza di racconto serrato e compatto, non sciupata del resto dalla suddivisione in due atti con Intermezzo dopo l’intervallo.
In cinque mesi egli compose l’opera cui è legata la maggiore sua fama, a pubblicarla fu l’editore Edoardo Sonzogno, venuto a sconvolgere il maestoso regno Ricordi, i cui autori spesso si cimentavano con soggetti socialisticheggianti.
L’opera andò in scena il 21 maggio 1892 al Teatro Dal Verme di Milano con la direzione di Arturo Toscanini e annoverando tra gli interpreti Victor Maurel, il baritono più famoso del tempo. E il successo gli spalancò le porte dei teatri di tutto il mondo. Fama che vince i secoli gli garantì anche la circostanza che un tenore Napoletano, tale Enrico Caruso, debuttasse giovanissimo il ruolo, per sostituire, a Salerno, un collega ammalato. All’inizio del secolo egli decretò il primo successo della storia del disco con le ripetute incisioni di “Vesti la giubba”.
L’allestimento andato in scena domenica 3 febbraio alle ore 19 sul palcoscenico del Massimo napoletano, lo stesso che lo aveva tenuto a battesimo nel 2011, è di Daniele Finzi Pasca, fondatore de Le Cirque du Soleil.
Il regista, la cui esperienza artistica resta intimamente connessa con il mondo circense, interrogato su quale sia la contemporaneità di un’opera come Pagliacci, risponde con un riferimento all’opportunità unica e contestualissima che l’opera in questione offre di utilizzare “immagini oniriche inscritte in un cerchio aperto che va dai ballerini ai cantanti, dai saltimbanchi ai musicisti. Il linguaggio corporeo degli acrobati stimola l’inconscio rivelando paesaggi interiori che appaiono più veri del vero, e dall’inconscio, che è sempre attuale, emerge la musica di Leoncavallo.” E a proposito della componente onirica caratteristica delle sue messe in scena, ancora Finzi Pasca: “La mia narrazione è onirica, è vero, ma non propone evasioni dalla realtà. Il sogno è racconto, è memoria, è desiderio, ma non è mai fuga. Il sogno svela i misteri in modo simbolico. Nedda che si moltiplica per sette aggiunge al personaggio un contorno simbolico che annuncia il tragico epilogo e tuttavia non puoi evitarlo mutando il corso degli eventi.” La totale commistione, fino a che i ruoli divengono indistinguibili, tra paesani e guitti, serve a rimarcare come la finzione sia “realtà” serissima e rispettabilissima al servizio della verità. Una regia che alza spesso lo sguardo ad un cielo che elargisce doni sotto forma di luce, di acqua e di elementi, perché nei momenti in cui è richiesta maggiore forza d’animo è un po’ come spingere il cuore verso un orizzonte illimitato.
L’ennesima riproposizione e il sold out registrato in tutte le serate ci danno la cifra di un incontrovertibile successo.
Ad accogliere il pubblico in sala un’immagine di Leoncavallo al pianoforte che riempie l’intero spazio scenico e annuncia quella che sarà una delle preziose sorprese che gli riserverà la serata: la riproduzione di rulli Welte-Mignon registrati l’8 dicembre 1905 dal compositore napoletano e riprodotti digitalmente.
Antonello Palombi nelle vesti di Canio/Pagliaccio ha messo in luce ragguardevoli volumi, precisa tecnica vocale e ottima interpretazione, caricando di notevole tensione drammatica e pathos i momenti antecedenti al consumarsi della tragedia. Timbro caldo e pasta vocale vellutata per Maria José Siri che ha dato vita ad una Nedda giunonica, disinvolta in scena e tecnicamente ineccepibile. Il Tonio/Taddeo, cui è inoltre affidato il Prologo, è un disabile morale, il baritono Lucio Gallo gli conferisce spessore tragico e carattere infido, ottima la vocalità non sempre assecondata da precisa tecnica di fiato.
Il campagnuolo Silvio, interpretato da Davide Luciano, ha impressionato positivamente per recitazione, materiale vocale e fraseggio, nonostante qualche acuto abbia forse tradito un po’ di emozione. Il tenore Alessandro Liberatore porta in scena un Peppe/ Arlecchino preciso e di tutto rispetto. A completare il cast dei cantanti i due contadini, Mario Todisco e Giuseppe Scarico. Suggestive ed evocative le performance delle acrobati: Benjamin Courtenay, Catherine Girard, Danièle Béchard, Giulia Gualzetti, Helena Jans, Julie Choquette, Krin Haglund.

Sul podio Philippe Auguin ha diretto la partitura in senso dinamico, assecondando un movimento che senza soluzione di continuità si estendesse dalla buca alla scena e fosse funzionale alle esigenze degli artisti impegnati in numeri acrobatici.
Buona prova per il Coro diretto da Gea Garatti Ansini, particolarmente disciplinato nell’impegnare la scena. E delizioso quello di voci bianche preparato da Stefania Rinaldi. Pulite nelle linee ma di grande impatto le scene di Hugo Gargiulo, cui fanno da contraltare i costumi variopinti di Giovanna Buzzi. Stilizzate ed introspettive le coreografie di Maria Bonzanigo.

Mariapaola Meo

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