La critica musicale nel terzo millennio: deontologia e libertà di espressione

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A costo di scontentare i sempre agguerriti appassionati di millenarismo e gli amanti delle cifre esatte, riteniamo necessario per correttezza anticipare un passaggio epocale di un decennio, datandolo al 1990.
È a partire dal novembre 1989 che, in conseguenza del crollo dell’impero sovietico e del suo simbolo architettonico, il muro di Berlino, le reti di interconnessione di dati, fino ad allora ad uso esclusivamente militare e di intelligence, blindate nei confini dei due schieramenti in guerra fredda tra loro, si aprono e si rivelano all’uso civile dando vita a Internet.
Tutto il mondo dell’informazione viene profondamente influenzato dal nuovo mezzo, ma le opportunità che vengono offerte diventano anche occasione per regolamenti di conti all’interno di operatori della stampa, nonché di introduzione di concorrenze spesso sleali tra essi.
I tempi di Schumann e di Berlioz, ma anche quelli di Montale e di Mila sembrano assai più distanti di quanto il secolo o i pochi decenni, numericamente, indichino; si tratta di una relativizzazione dell’obsolescenza mediatica che accompagna la comunicazione a partire dal secondo dopoguerra, con l’avvento della televisione, ma che internet ora accentua esponenzialmente, soprattutto perché moltiplica sia il numero dei fruitori che quello dei redattori, in senso lato, delle notizie.
Pressoché chiunque sia in possesso di uno smartphone, per non dire di un notebook o un pc, senza dovere certificare le proprie competenze, in nome di una democrazia dell’informazione reticolare, può redigere una critica, una recensione, un’analisi del testo musicale, praticamente imponendola a chi non ha nemmeno effettuato la scelta di acquistare questo o quel quotidiano o periodico.
Diviene difficile persino a smaliziati addetti ai lavori distinguere un fan in buona fede, uno studioso più o meno obiettivo, da un influencer al soldo di un artista o di una società di comunicazione talvolta contrattualizzata da autorevoli  istituzioni.
La carta stampata, le grandi testate e le versioni on line delle stesse si sono cacciate in un cul de sac suicida, soprattutto confondendo e mescolando strategie editoriali e di marketing, copiando e incollando da un medium all’altro, inseguendo finalità di uno con lo strumento e i canali dell’altro formato di informazione.
Cerchiamo di mettere ordine.
Nell’ultimo mezzo secolo il critico ha perso il ruolo privilegiato di primo ascoltatore di una esecuzione; gli editori, che un tempo si schieravano a fianco del recensore sperando che questi rivelasse, scoprisse il nuovo Bellini, il nuovo Verdi o una reincarnazione di Puccini, oggi adottano la strategia di minimizzazione dei rischi che si estrinseca nella regola: “Parla di chi è noto che interpreta ciò che è noto”.
L’aforisma, concettualmente, potrebbe essere tradotto, per il contento suicida, in: “Punta la pistola carica alle tue tempie e sii sicuro di premere il grilletto”.
Quale contributo di informazione, non vogliamo dire di conoscenza, fornisce il dispensare ciò che è noto, al solo scopo di non rischiare di deludere il lettore che, acquistato il quotidiano per leggere avidamente la pagina di sport, acriticamente quelle di politica, cinicamente quelle di cronaca, potrebbe essere infastidito dal rinvenire in quelle di spettacolo qualcosa di lesivo di un proprio idolo?
Nel 1909, oltre un secolo fa, Arnold Schönberg (Vienna, 13 settembre 1874 – Los Angeles, 13 luglio 1951) scriveva con lungimiranza divinatoria: «L’influsso della critica sul pubblico è completamente scomparso»
La domanda che allora e ancor più oggi occorre porsi è quale sia l’influsso del pubblico sulla critica, in un sistema di mercato che mette al centro l’audience.
Come non condividere il pensiero del grande direttore Ernest Ansermet, il quale, solo qualche anno dopo l’affermazione dell’ideatore della dodecafonia, osservava: «Si sono sempre trovati critici che hanno compreso e appoggiato i geni innovatori. Se così non fosse stato, questi stessi geni non avrebbero lasciato tracce».
La grande bacchetta, in pieno novecento, rimarcava quella funzione di selezione e di guida alla scelta dell’ascoltatore che i grandi critici del secolo precedente avevano esercitato in forza delle loro gigantesche personalità e amplissime competenze.
Ebbene la domanda in cascata che si affaccia è: chi seleziona i selezionatori?
I criteri mercantilistici inducono editori cartacei e digitali a scegliere collaboratori che garantiscano il consenso del pubblico e, perché questo consenso si realizzi, è indispensabile che il gusto del critico non si discosti da quello dei lettori, meglio ancora se lo riprenda e lo rafforzi con argomentazioni apparentemente intellettuali.
Il critico inglese Paul Griffiths, nel 2006, è categorico in materia: «Oggi i critici stentano a far udire la loro voce, soverchiati come sono dal concorrente baccano degli affaristi del settore musicale, decisi a mantenere lo status quo, mediante periodiche immissioni di novità rapidamente consumabili».
Declino della critica e declino culturale sono tra loro interdipendenti e avventurarsi nella ricerca di relazioni di causa-effetto sarebbe quanto meno sterile, quando non giustificatorio o consolatorio e, per tanto, intellettualmente vacuo.
È altresì certo che prevalga un criterio di reclutamento del critico musicale che individua in esso un esperto o un consulente che avalli le tendenze di mercato e che i potenti dei media possano invocare o ignorare a intermittenza, a seconda che i giudizi della penna asservita siano convergenti o divergenti dagli interessi di inserzionisti influenti e di major discografiche.
Il critico e saggista Federico Capitoni, nel suo volume “La critica musicale” si pone più volte, in forma diretta o indiretta, il quesito: «La critica a che e a chi serve?»
Dalle diverse e articolate argomentazioni emerge il concetto che il compito del critico musicale possa essere quello di spiegare al lettore ciò che questi sa, ma ignora di sapere, quando ascolta un artista e, per propria sensibilità, apprezza o meno.
Si tratta di una funzione che rischia l’ancillarità, la sudditanza, laddove il recensore non ponga l’asticella di volta in volta più in alto, anche assumendosi il rischio di impattare su essa rovinosamente, altrimenti quei geni innovatori di cui parlava Ansermet sarebbero restati allora e resterebbero oggi confinati nei loro salotti privati, avviliti e dimenticati.
Un elemento che ha giocato a sfavore della presenza di critica musicale sulla stampa cartacea, determinando altresì la quasi totale scomparsa di quella sinfonica, è rappresentato dall’evoluzione della contrattualistica dei lavoratori poligrafici, che ha introdotto le maggiorazioni di paga per il lavoro notturno e festivo.
Gli editori hanno scelto negli anni ’80 di sopprimere i turni serali dei dipendenti, limitando l’impiego in tarda ora  dei lavoratori solo in occasione di eventi sportivi, consultazioni elettorali e poche altre circostanze in grado di produrre notizie da prima pagina.
Una rappresentazione operistica, ma anche un concerto sinfonico, raramente si conclude prima delle 23 e, per quanto rapido e valido sia un recensore, non prima delle 23,30 questi potrà rendere disponibile la critica: troppo tardi per “sprecare” lavoro straordinario notturno destinandolo a notizie da articolo interno di spalla!
Potrebbe sopperire alla carenza la stampa on line, ma ciò vale solo per le piccole testate, fortemente motivate, poiché i grossi quotidiani sono organizzati con personale tecnico-giornalistico, il solo abilitato all’upload degli articoli e questi lavoratori sono di norma decine di volte meglio retribuiti dei critici musicali e, pertanto, la prestazione extra time dei tecnici ancora in questo caso troppo onerosa.
Aggiungiamo che in tutti i quotidiani a larga diffusione sono in corso da anni veri e propri conflitti tra redazioni del cartaceo e redazioni dell’on-line e che i critici sono collocati sul campo di battaglia soggetti a un tiro incrociato.
Le milizie del cartaceo tentano di resistere all’inevitabile trionfo del digitale, il quale conduce alla disarticolazione dell’organizzazione delle redazioni, alla netta riduzione degli organici e a una certa strutturazione di pari che ai capiredattori non può che apparire come una sottrazione di potere e una condanna all’espulsione dal processo.
L’esame delle possibili soluzioni non è argomento di pertinenza del presente testo, ma esse sarebbero ben visibili a chi rinunciasse ad adottare obsolete strategie di tutela sindacale, per abbracciare metodi di rappresentanza di interessi e di garanzie di lavoratori dell’intelletto indispensabili alla vita democratica di una nazione, spostando il finanziamento per l’editoria dagli imprenditori alla defiscalizzazione e alla contribuzione dei lavoratori dell’informazione.
E la parentesi si chiude, in questa sede, lasciando spazio alle riflessioni di ciascuno.
Tornando a occuparci del mezzo, riteniamo miope non accorgersi che per un nativo digitale, come ogni cittadino del cosiddetto primo mondo nato dopo il 1990, il giornale cartaceo sia guardato se non con sospetto, con atteggiamento da archeologo, come un oggetto vintage.
Le grandi testate giornalistiche sono state rapide, è vero, a darsi un alter ego digitale, ma non altrettanto pronte a liberarsi delle filosofie e delle linee editoriali profumate di inchiostro.
Ancora all’affacciarsi del terzo decennio del secolo è necessario riconoscere che i mezzi paralleli non siano una scelta sempre valida, fino a quando il digitale sia chiamato a patire la carenza di risorse del cartaceo, non disponendo il primo, di gettiti e finanziamenti inserzionistici pari a quelli della carta stampata.
È metafora di una società in cui si chiede ai più deboli generazionalmente, i giovani, di farsi carico dell’assistenza dei più forti dal punto di vista economico, ovvero i pensionati.
Tra i giornali nati direttamente sul web, che per questo si sono potuti dare organizzazioni meno gerarchizzate e più flessibili, vanno distinti nettamente i blog dalle testate.
Il blog è per definizione un mezzo spontaneo di cui ciascuno si serve per esprimere in piena libertà opinioni e fornire informazioni.
La testata on line, invece, pur adottando le stesse piattaforme digitali dei blog, è un soggetto giuridico definito, con un direttore responsabile riconosciuto dal Tribunale della Stampa e al quale la legge richiede l’iscrizione all’ Ordine dei Giornalisti.
Questa apparente rigidità è stata introdotta dal legislatore a tutela del lettore che, in questo modo, può individuare il responsabile della notizia, cui chiedere eventuali rettifiche, esigere indennizzi, chiamare in giudizio civile e penale per tutto quanto pubblicato.
Non è quindi la libertà di stampa ad essere in alcun modo limitata, ma ad essere tutelato è il diritto del cittadino.
In materia di diritto di critica l’art. 2 della legge che istituisce la professione giornalistica, n. 69 del 3 febbraio 1963, recita:
«E’ diritto insopprimibile dei giornalisti la libertà d’informazione e di critica, limitata dall’osservanza delle norme di legge dettate a tutela della personalità altrui ed è loro obbligo inderogabile il rispetto della verità sostanziale dei fatti, osservati sempre i doveri imposti dalla lealtà e della buona fede».
Una successiva sentenza di Cassazione, intervenuta a mettere la parola fine ad un processo contro un critico, riporta il seguente pronunciamento:
«Il diritto di critica si differenzia da quello di cronaca in quanto non si concreta nella narrazione dei fatti, ma nell’espressione di un’opinione che, come tale, non può essere rigorosamente obiettiva. Ove il giudice pervenga, attraverso l’esame globale del contenuto espositivo, a qualificare quest’ultimo come prevalentemente valutativo, anziché informativo, i limiti dell’esimente sono quelli costituiti dalla rilevanza sociale dell’argomento e dalla correttezza dell’espressione»
Tutto questo è oggetto del patto deontologico del giornalista, ma l’internauta dei social network non presta alcun giuramento e, paradossalmente, è libero di criticare il critico, di emettere giudizi offensivi sul piano artistico, personale, razziale, religioso, sessuale e altro, magari nascondendosi dietro un nickname.
Recentemente, Assolirica, Associazione Nazionale Artisti della Lirica, ha fortemente sostenuto la necessità di introdurre un codice deontologico che possa essere a garanzia del recensore e del recensito e inscrivibile nell’ art.21 della Costituzione.
La Corte di Cassazione (cfr. Cass. Pen. Sez. V, 6.07.1992, n.7632 e recentemente, Cass. Pen. Sez. V, 10.02.2011, n.4938) si è pronunciata in merito ai requisiti che  una recensione musicale  deve rispettare per non incorrere  in responsabilità che possono essere anche penali, laddove si configurasse il  reato  di diffamazione a mezzo stampa (art. 595, commi 1 e 3, c.p).
La Corte si pronuncia anche evidenziando l’utilità sociale della critica o cronaca dello spettacolo, che va quindi oltre l’imprescindibile esercizio di un diritto.
Come in una deposizione di testimonianza, i fatti riportati devono essere basati su esperienza vera e non essere frutto di un sentito dire, che vuol dire che il critico deve essere stato presente allo spettacolo o, ma nel caso deve essere chiaramente indicato, averne preso visione con altro mezzo come televisione o riproduzione audiovisiva.
Nel dare cronaca e recensire, il critico si deve riferire ad una prestazione, giammai alla persona dell’artista o a un suo difetto e, ça va sans dire, non può fare riferimento se non per esigenze strettamente narrative, a caratteristiche fisiche, ad appartenenze etniche, a fedi religiose o a opzioni di orientamento sessuale.
Se sono presenti utilità sociale, verità e continenza, ai sensi dell’art. 51 c.p., si è in presenza di esercizio di diritto di critica, che è esente dall’accusa di esercitare azione lesiva della reputazione altrui e, la stessa Corte aggiunge che, fermo restando l’obbligo della verità, una critica esprime un giudizio di valore soggettivo e pertanto non può pretendersi obiettivo. (Cass. Pen. Sez. V, 13.11.2009, n.43403).
L’Associazione dei Critici Musicali auspica anche che siano esplicitate alcune proibizioni che ad oggi sono sottintese e disattese, quali il divieto di percepire compensi in denaro o in altra forma per la stesura di critiche positive da parte di artisti, così come il divieto di esercitare attività di ufficio stampa o di promozione in forma occulta.
L’effetto paradosso è che in ampi strati della popolazione dei lettori, ad essere svilita è la critica on line che ha generato il chiacchiericcio da bar, non la villana rumorosità degli avventori al tavolino.
Avvilimento, più che svilimento, deriva anche dagli aspetti retributivi del critico in generale e in misura maggiore di quello on line.
Stretto da una concorrenza spietata e spesso sleale, il recensore è destinatario di corrispettivi che non coprono nemmeno un terzo delle cosiddette “spese per la produzione del reddito”, considerando che il critico on line non è di norma retribuito, anche quando collabori con testate di chiara fama.
La gratuità mortifica la prestazione, apre le porte indiscriminatamente e non selettivamente a critici di non provata competenza e, in definitiva, sottrae credibilità ad un’intera categoria professionale.
Sempre più spesso i critici professionisti che si esprimono sul cartaceo, sono oggetto di querele e denunce penali per diffamazione a mezzo stampa: sono forse più aggressivi, più offensivi o più caustici dei colleghi digitali?
Niente affatto, essi scontano la indelebilità del loro prodotto consegnato alla carta inchiostrata e quindi facilmente acquisibile agli atti processuali, mentre uno scritto su web può essere rapidamente modificato (fatta salva la violazione deontologica che la correzione non dichiarata comporta), conducendo all’archiviazione in istruttoria del fascicolo penale perché la giurisprudenza tende a equiparare la pronta correzione, ammesso sia documentabile il testo originario, come adempimento del dovere di rettifica, che estingue la perseguibilità.
E dunque, mentre celati dietro nickname, centinaia di blogger si lasciando impunemente andare ad affermazioni al limite del turpiloquio e a considerazioni sessiste, razziste e spesso volgari, i critici di professione rischiano, come accaduto anche di recente, di dovere alienare beni di famiglia e accendere mutui trentennali, per far fronte a condanne pecuniarie comminate per avere pubblicato una considerazione tecnico-artistica o per un titolo a effetto apposto a un proprio pezzo da qualche caporedattore poco deontologico violante la regola aurea che titolo e occhiello debbano riportare quanto contenuto nel corpo dell’articolo, preoccupandosi di non ingenerare fraintendimenti, tanto più se tesi a solleticare interessi bassi del lettore o di questo o quel gruppo di potere economico o politico che sia.
Tristemente si è diffusa la tendenza a redigere critiche annacquate, deresponsabilizzate, infarcite di dichiarazioni di modestia e di sussiego in cui alle affermazioni si sostituiscono le incertezze, alle stroncature la ricerca di attenuanti generose, in un eloquio costruito di “forse”, di “a mio modestissimo parere”, perché non dire a parere di chi non vuol essere determinante o sgradito?
L’avvento dei social, inoltre, ha solleticato l’ego del recensore, il quale, pur di vedere il proprio scritto condiviso e seguito da molti apprezzamenti, si preoccupa di impoverire il linguaggio, abbassandolo al livello della chiacchiera da bar virtuale, o di alimentare discussioni nelle quali il suo nome campeggi.
In questo, va detto, un ruolo determinante in negativo è svolto da editori e direttori on line, per i quali il solo parametro di qualità da perseguire è il numero di visitatori ospitato.
Un nuovo formato in cui la recensione musicale si presenta a partire dagli inizi del nuovo secolo, è quello web-televisivo.
Sempre più spesso grandi testate “confinano” le recensioni musicali in uno spazio web nel quale il critico in prima persona, ovvero un assistente di sua stretta fiducia, assembla un articolo on-line che incapsula un breve video riferito all’evento musicale trattato e, talvolta, vi inserisce interviste flash ad un interprete.
Il tutto viene debitamente sottotitolato in modo che il sommario del video stesso possa ospitare una recensione che può spaziare, a seconda delle piattaforme, dai 2000 ai 3000 caratteri.
Si tratta di un’autentica conquista per i lettori melomani e per i critici che fanno rientrare, è proprio il caso di dirlo, da una “finestra” ciò che non trova più accesso dalla porta principale.
Tuttavia, si aggiungono nuove responsabilità in capo al recensore ed esse derivano principalmente dalla immediata contestabilità del suo giudizio critico che viene, per così dire, verificato dal lettore, il quale prende visione e soprattutto ascolto di alcuni passaggi dell’esecuzione mentre legge l’opinione del recensore.
Un altro terreno di scontro è quello del montaggio del video annesso alla recensione, la cui durata, per una consuetudine invalsa in epoche preistorico-televisive dei primi festival nazionalpopolari di Sanremo, si afferma non possa superare i 3 minuti, esclusi gli applausi o dichiarazioni degli interpreti o di autorità.
La limitazione, va detto, ormai assunta a mosaica legge dalle istituzioni musicali, trovava ragione d’essere quando si voleva impedire la trasmissione radiofonica e televisiva di intere canzoni candidate alla kermesse canora per antonomasia, nella considerazione che diffondere una canzonetta tra le altre preconfigurasse un vantaggio nella gara.
Motivazioni, quindi, anacronistiche, ma inviolabili, tant’è che il rispetto del diritto di cronaca si è ormai irrigidito su quella tempistica da canzonetta
Ragioni, invece di tipo deontologico, suggeriscono al critico di selezionare passaggi di buon livello qualitativo, anche a costo di non supportare un giudizio espresso nel testo a sommario.

Essendo buona norma, e non banale carineria, riferirsi ad una singola prestazione e non ad una qualità dell’artista, è altresì raccomandabile non immortalare una défaillance incidentale, di cui pure va data cronaca.
Sul profilo tecnologico, le sempre maggiori performance dei dispositivi anche portatili, come smartphone e i-phone rendono meglio accessibili e sempre più “socializzabili” le recensioni web-tv; testate come il Corriere Della Sera, prima e La Repubblica, poi, mostrano di avere raccolto la sfida.

Mariapaola Meo

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