Daniel Oren per il Requiem di Verdi dedicato a Bruno Cagli

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Il gesto esacerbato, le pause a effetto, le trombe, della morte o della rinascita, uscite dalle fila dell’orchestra per risuonare dall’alto, come una sorta di monito, tra il pubblico che gremiva ogni ordine di posti dell’Auditorium Parco della Musica di Roma, lo scorso 30 novembre, per assistere al Requiem di Giuseppe Verdi, scritto nel 1874 e dedicato a Alessandro Manzoni.
In realtà, Verdi pensava da tempo di comporre una Messa da requiem e nel 1869 progettava una composizione a più mani da dedicare alla morte di Gioachino Rossini. Il progetto non va in porto e Verdi lo riprende alla morte di Manzoni. Pochi giorni dopo la scomparsa dello scrittore, il compositore scrive all’editore Ricordi: «Io pure vorrei dimostrare quanto affetto e venerazione ho portato e porto a quel grande che non è più e che Milano ha tanto degnamente onorato. Vorrei mettere in musica una Messa da morto da eseguirsi l’anno venturo per l’anniversario della sua morte. La Messa avrebbe proporzioni piuttosto vaste, ed oltre ad una grande orchestra ed un grande coro, ci vorrebbero anche (ora non potrei precisarli) quattro o cinque cantanti principali».
L’ultima volta all’Accademia Nazionale di Santa Cecilia del capolavoro verdiano, era stata nel 2015, con la direzione di Manfred Honeck.
Per questa serata dedicata a Bruno Cagli, storico Presidente dell’Accademia, ad un anno dalla sua scomparsa, sul podio dell’Orchestra e Coro dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia c’è Daniel Oren, che fin dall’inizio si impone quale regista degli stati d’animo del pubblico, coinvolto in un’attesa piena di un silenzio irreale quando la sua bacchetta resta sospesa in aria per un tempo indefinito. La tensione si scioglie quando finalmente il maestro dà il via all’orchestra, dalla quale emerge dapprima la voce profonda del violoncello, cui rispondono gli archi sottovoce, mentre il coro intona Requiem eternam, dona eis domine. All’apice della composizione, giunta al celeberrimo Dies Irae, i gesti del direttore diventano netti, taglienti quando spinge l’orchestra a volumi altissimi, in un affondo fisico e spirituale. La sala è in visibilio. Ma risulta poi alquanto forzato lo stesso gesto in quei passaggi che richiederebbero contemplazione più che esternazione, riflessione più che vigore.

Bravissimi i solisti. Il soprano Eleonora Buratto, che, nonostante un malcelato colpo di tosse, esprime appieno la potenza del momento liturgico, con la sua voce capace di trasmettere dolcezza, vigore e sacralità nello stesso istante. Il mezzosoprano Ekaterina Semenchuk, eccezionale nel seguire e modellare ogni flessione vocale, i volumi, le tinte, i cambiamenti veloci. Il tenore Francesco Demuro, timbro luminoso anche negli acuti, presenza netta quando canta con gli altri. Il basso Ain Anger, che nell’intonare il Mors stupebit mette in luce una voce, che pur profonda, resta chiara ed espressiva, e anche capace di scandire come fosse voce leggera.
Superbo il Coro dell’Accademia di Santa Cecilia, in grado di trasmettere ogni possibilità poetica e melodica. Accogliendo appieno l’idea verdiana, il suo è molto più di un accompagnare i solisti.
È il commento alle vicende del testo, la narrazione dell’anima nel momento del trapasso.
Dopo l’ultima nota, di nuovo il silenzio irreale dell’inizio. Oren, nel completo immobilismo sul palco e in sala, resta fermo ancora una volta con la bacchetta in aria, a sospendere l’emozione generale per più di un minuto. Forse il pubblico non è sicuro che sia finito o semplicemente la bravura del direttore d’orchestra è pari alla sua capacità teatrale di restare un protagonista assoluto della scena. In ogni caso funziona. L’applauso, infine, arriva e non poteva essere più scrosciante e liberatorio.

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