Oren al San Carlo per la Sinfonica

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La serata gelida di sabato 7 gennaio 2017 non ha impedito che il Teatro San Carlo si riempisse di pubblico per il concerto sinfonico diretto da Daniel Oren e che ha visto anche la presenza di un solista di grandissima caratura come Enrico Dindo.
«Il Concerto n. 2 per violoncello di Dvořák e la Sinfonia n.2 di Brahms sono due brani molto diversi tra loro e di scuola mitteleuropea, ma io credo che entrambi posseggano un lirismo cantabile che un’orchestra italiana, votata al melodramma ma di grande personalità, come quella del San Carlo, possa eseguire con eccellenti risultati, al pari, ma con diverso colore, delle orchestre austriache o tedesche che hanno forse migliore tecnica strumentale, ma meno sentimento» aveva affermato Daniel Oren alla vigilia, e il risultato ha confermato e superato le previsioni del maestro israeliano.
Il Concerto per violoncello n. 2 in si minore, op. 104 di Antonin Dvořák potrebbe meritare l’appellativo di “Concerto del ritorno dal Nuovo Mondo”, essendo la sua composizione iniziata durante il soggiorno americano dell’autore ma ultimata, subendo numerosi interventi, solo nel 1895 a Praga.
La versione che oggi è adottata senza alcun ripensamento è, appunto, quella rivisitata dal compositore ceco al suo ritorno in patria ed eseguita alla London Philharmonic Society il 19 Marzo 1896.

Dvořák e Brahms, gli autori dei brani del primo week end sinfonico del 2017 sancarliano, sono accomunati da vicende biografiche analoghe che hanno segnato le vite e forse le produzioni di entrambi: l’ amore impossibile per una donna alla quale non poter manifestare il coinvolgimento dei sensi.
Nel caso di Brahms si trattava di Clara Schumann, sposa del suo amico, maestro e mentore; per Dvořák la passione si tingeva di tinte ancora più scabrose, avendo per oggetto l’allieva e avvenente attrice Josefina Cermàkovà, della quale egli avrebbe sposato la sorella minore Anna.
Dvořák è un compositore riconducibile alle cosiddette “Scuole Nazionali”, tuttavia, come il Secondo Concerto per violoncellotestimonia, i temi etnici e popolari nell’opera del musicista boemo, rimangono un mero spunto di elaborazione, una suggestione e mai una citazione, come viceversa accade nelle pagine, ad esempio, di Čajkovskij.
Romantico per struttura e per ispirazione, il Concerto n.2 in si minore op.104 è invece piuttosto classico nella relazione tra solista e orchestra, improntata sul dialogo, sulla ripresa tematica, ma senza quel predominio che è proprio delle pagine di quei compositori che dello strumento solista erano loro stessi virtuosi.
Gli impasti timbrici caratteristici della musica slava, soprattutto nell’uso dei legni e nel procedere parallelo di clarinetti e violoncelli permeano la partitura.
Dopo l’energico primo tempo, l’atmosfera si fa quasi mistica nel secondo, che si apre con un corale affidato ai legni evocante suggestioni liturgiche, come a trasfigurare un rito nuziale in cui s’innesta il canto del violoncello solista, ispirato al Lied n.1 op, 82, dedicato a Josefina Cermàkovà, il cui testo rimanda ad un abbandono: “Lasst mich allein”.
Anche il terzo e conclusivo movimento si apre con un tono solenne di marcia che precede l’Allegro moderato vero e proprio, in cui spunta un altro tema dai Quattro Lieder op. 82, stavolta permeato di dolore, in memoria della stessa donna amata, scomparsa proprio nei giorni in cui il musicista aveva fatto ritorno a Praga; la coda dal tono dolente fu aggiunta da Dvořák proprio in omaggio al suo primo e indimenticato amore.
Pensando all’ispirazione del meraviglioso Concerto in si minore l’interpretazione di Enrico Dindo si staglia esemplare nell’ evidenziare la cantabilità liederistica, l’esuberanza delle passioni affidata all’incisività dell’attacco e il dolore evocato con l’uso di porzioni minime di arco, senza mai smarrire l’aderenza e la corposità del suono, emesso da uno strumento del 1717 di Pietro Giacomo Rogeri, di proprietà della Fondazione Pro Canale e affidato al grande concertista, Accademico di Santa Cecilia.
Il vibrato è stato “romantico”, ma stretto, senza compromissione di un’intonazione sempre nitida, come esibita nell’irrinunciabile bis invocato con entusiasmo: l‘Allemanda dalla Suite n.6 di J.S.Bach.
Per molti decenni ai compositori anche di primissima grandezza è toccato il destino, chissà se e quanto gradito, di vedere le proprie prime sinfonie etichettate come “Decima di Beethoven”, ma a Johannes Brahms è andata ancora peggio, per così dire, poiché l’appellativo di decima è andato alla Sinfonia n. 1 in do minore Op. 68, mentre alla Sinfonia n.2 in re maggiore Op. 73 è toccato, per il suo lirismo danzante, un meno consueto sottotitolo di “Ultima di Schubert”.
Storici e musicologi, forse desiderosi di argomenti a sostegno delle proprie tesi, forse con l’obiettivo di descrivere all’ascoltatore un’ambientazione stilistico-linguistica, hanno inconsapevolmente sottostimato le personalità originali e specifiche di giganti, i quali di prolungare il numero delle sinfonie del genio di Bonn o del poeta del romanticismo musicale viennese, probabilmente, non sentivano la necessità.
La Sinfonia n.2 di Brahms è un esempio mirabile della sapienza e dell’arte del musicista di Amburgo; strutturata nei canonici quattro tempi è fortemente ancorata alla tonalità di re maggiore, eccezione fatta per l’Adagio ma non troppo, secondo tempo che ci si attenderebbe impiantato in si minore, ma che l’autore tramuta in un più aperto si maggiore, mentre il successivo Allegretto grazioso va a collocarsi nella regione della sottodominante del tono d’impianto.
Luminoso ed energico è il conclusivo Allegro con spirito, luce ed energia che esprimerebbero lo stato d’animo dell’autore durante la composizione della pagina, avvenuta in un periodo di vacanza estiva e conclusasi in occasione del compleanno, in settembre, di Clara Schumann, presso la cui dimora Brahms si era recato a Baden Baden.

Leggerezza e gaiezza sono i sentimenti che l’autore pare voglia ispirare, tant’è che anni dopo egli stesso, non senza nostalgia, ebbe a definire la Sinfonia n.2 come «Una piccola sinfonia gaia e innocente» e anche, con una sottile ironia nei confronti di Johann Strauss figlio, «Una Suite di valzer», in ragione del frequente ricorrere del ¾ nella partitura, che pure, all’inizio della stesura nelle parole dell’autore sarebbe dovuta «risultare a lutto». In questo evolversi di stati d’animo risiede un fascino aggiuntivo della Sinfonia in re maggiore.
Oren più che l’evoluzione ha voluto rimarcare i contrasti, come di chi, conoscendo l’epilogo, volesse condurvi lo spettatore mantenendone desta l’attenzione e segnalando ad esso di volta in volta i mutamenti.
Prezioso contributo è stato offerto dalla prova del primo corno e dalla sezione dei legni tutta, mentre i violoncelli hanno avuto un professore d’orchestra aggiunto in Enrico Dindo, che, generosamente e per essere partecipe dell’intera serata sancarliana, si è disposto nella fila; fraseggi romantici e timbri “italiani” quelli irradiati dalla compagine sancarliana, guidata dal primo violino Marco Mandolini.
La musica strumentale tutta deriva per evoluzione da quella vocale e mal cela la frustrazione di non possedere, della voce umana, la irraggiungibile espressività; ebbene Daniel Oren spingendo persino oltre la partitura la cantabilità dei temi sinfonici forse riduce le distanze tra sinfonia e melodramma, ma anche quella tra accademia e sentimento.
Al pubblico la scelta tra meditare sulla prima o lasciarsi trasportare dal secondo.
La folla di spettatori, dopo dieci minuti di applausi indirizzati a tutti gli interpreti, è defluita sorridente dal San Carlo, quasi incurante dei -2 gradi di temperatura: crediamo abbia plebiscitariamente scelto.

Foto di Emanuele Ferrigno

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