“Il Prezzo” a teatro con Miller e Orsini

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Era il 1968 e The Price di Arthur Miller debutta a Broadway, storia di un interno di famiglia sullo sfondo della grande crisi del ’29. Masolino D’Amico, storico traduttore del commediografo, di recente ne ha ricavato una traduzione per la Einaudi consentendone anche il recupero teatrale da parte di Umberto Orsini. Storia di due fratelli Victor e Walter Franz, rispettivamente Massimo Popolizio e Elia Schilton, e di un padre ingombrante, colpito nella sua stabilità economica, che condizionerà il destino della sua famiglia. Anche il padre di Miller fu travolto dalla Grande Depressione, come lo scrittore racconta nella sua autobiografia “Svolte” (1986), quindi l’affondo autobiografico è più che un’ipotesi.

Il Prezzo è andato in scena il 23 febbraio al Verdi di Salerno con la regia dello stesso Popolizio.

In un allestimento scarno ed evocativo, restano i ricordi della vita, accatastati come mobili in disuso, in quella casa dove Victor sedici anni prima aveva accudito il padre. Lo stabile dovrà essere demolito pertanto occorre liquidare urgentemente l’eredità, operazione che scatenerà i conti con il passato per entrambi i fratelli. Victor è un poliziotto, aveva abbandonato gli studi universitari per le disgrazie economiche del padre, quindi la sua era stata più che una scelta una necessità. Il promettente figlio consentirà al fratello Walter, anche se meno dotato, di continuare l’università e laurearsi. E proprio quella divisa, tra dignità e rimpianto, è oggetto dei nevrotici scherni di Esther, moglie depressa e dedita all’alcool, insoddisfatta e livida per i successi di Walter, pagati a caro prezzo con le rinunce del fratello. Intanto un perito dovrà valutare i beni, anche l’arpa appartenuta alla madre, che rinunciò ad una promettente carriera per la famiglia, e sarà l’antiquario Gregory Salomon interpretato da Umberto Orsini ad occuparsene, connotato da un’attenta e magnetica vaghezza, ma anche arguto e con lo spiccato senso degli affari. Il fratello, chirurgo di successo e imprenditore nel settore sanitario, irromperà nella casa dopo anni di assenza, chiamato dal fratello perché dovranno dividere il ricavato. Un gesto di onestà criticato dalla moglie, che considera chiusa ogni partita, e il fratello un uomo senza riconoscenza.

Consumismo e ripiegamento sul denaro, l’occhio disincantato del commediografo ci racconta l’euforia del sogno americano e la disillusione generata dalla crisi, a metà carriera dopo i successi degli anni ’40 Erano tutti i miei figli e Morte di un commesso viaggiatore, e dopo Uno sguardo dal ponte, ritornano in questo lavoro teatrale i temi di sempre, i conflitti familiari, la critica feroce ai falsi miti del modello americano, il problema della scelta e dell’auto-responsabilità nella vita.

Il dramma in scena non è subito manifesto ma è nelle pieghe, psicologiche ed esistenziali dei quattro protagonisti. I fratelli raccontano vite legate al dovere, di egoismi e mediocrità, di irriconoscenza e ostentazione dell’agiatezza, il novantenne mercante d’arte, invece, è forse l’unico personaggio che non è vittima del suo passato, di un fallimento o di una dipendenza.

Umberto Orsini gli conferisce autorevolezza, abbigliato quasi come un clochard, a sottolineare il suo distacco dalle cose, sottostima astutamente il valore degli arredi, da uomo che mostra di intendersi bene di affari. Più cinico sarà Walter, che fiuta il profitto dappertutto, rilanciando il prezzo con modalità che creano vantaggi per lui e umiliando la debolezza del fratello.

L’autore non privilegia posizioni preconcette, una vita o l’altra, si è arbitri di aderire ai diversi valori in campo, come meglio si crede. Victor è certamente più arrendevole, sopraffatto dagli egoismi che lo circondano non saprà mai, se non ora per bocca del fratello, che il padre ha bluffato condannandolo a quel destino, non voleva restare da solo anche se aveva, di nascosto, qualche disponibilità economica sufficiente a far studiare i due figli.

Il conflitto tra i fratelli è inevitabile, il successo di Walter è a sua volte un gigante dai piedi d’argilla, almeno sotto il profilo della vita personale, mentre il rapporto matrimoniale tra i genitori si rivelerà altrettanto fallimentare. Il vecchio Gregory Salomon ha la distanza perfetta, dal drammatico confronto come dalla vita, da vincente a modo suo, in pace con se stesso e con il mondo, è pronto all’ultima danza, con la vita che sembra spegnersi rarefatta, al suono del vecchio giradischi sulle cui note aveva accennato un ballo anche Victor, all’inizio della rappresentazione.

Come si sa, però ognuno balla la vita che può, a volte che vuole. Il personaggio di Umberto Orsini, anch’esso rarefatto e leggero, convince nelle movenze maliziose anche per sobrietà di un tono.

Esasperati e conflittuali, gli altri personaggi sono resi con un’impostazione recitativa e registri vocali che non nascondono artificiosità, scenicamente accentuati, quasi a fissarne una dimensione irrimediabilmente votata allo scacco finale, specie Walter ed Esther, Massimo Popolizio ha una pertinenza più versatile nei vari registri.

La direzione registica risulta senza sbavature, la scenografia di Maurizio Balo e le luci di Pasquale Mari, con i costumi di Gianluca Sbicca, sono il giusto contenitore di questo dramma di parola, alcune sottolineature gestuali e vocali potevano essere stemperate, a nostro avviso, perché maestria attoriale e registica a parte, il sapore ultimo che la rappresentazione lascia non è di coinvolgimento ma di un certo distacco dal dramma, forse proprio per questi caratteri accentuati.

Si apprezza la coesione d’insieme ed i tempi perfettamente scanditi, in questo complesso meccanismo teatrale, che è poi quello del grande teatro, pur se espresso nelle sue forme più convenzionali.

Marisa Palladino

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