Ruggero Cappuccio e il viaggio fantastico di Don Chisciotte

0

Quale migliore omaggio si può tributare a Gerardo Marotta di un onirico e simbolico viaggio che si origina da un binario morto, la cui vitalità è viceversa potentemente letteraria, e il cui itinerario si dipana tra i libri di una biblioteca?
Il più lucido intellettuale della scena italiana, Ruggero Cappuccio, realizza un monumento alla parola stampata servendosi del più visionario eroe letterario di un’epoca di passaggio: Don Chisciotte.
Ma il drammaturgo, regista e attore napoletano trasla il romanzo di Cervantes su un secondo livello narrativo: il funambolismo circense, la clowneria, le acrobazie semantiche, sotto il telone di “Circus Don Chisciotte”.Ne deriva un testo denso di citazioni, di espedienti narrativi e lessicali raffinatissimi, riscritto da Michele Cervante, interpretato dallo stesso Cappuccio, che si imbatte in un “ultimo” della società, un infermiere che, perduto il lavoro, si arrangia tra i binari di una stazione senza luogo: Salvo, Pancha.
“Circus Don Chisciotte” è l’ultima produzione del Teatro Stabile Nazionale di Napoli andato in scena in “prima nazionale assoluta” al Teatro San Ferdinando il 23 marzo 2017.
Il legame con il romanziere spagnolo è invocato, inventato, sognato, da Michele Cervante che si proclama discendente dell’autore di Don Chisciotte, il quale, in visita a Napoli nel 1575 avrebbe dato inizio ad un ramo della discendenza partenopeo.
Le origini impongono a Michele di intraprendere una missione di salvataggio dei libri, testimoni della cultura e della storia fatta di lotte, di vittorie e di sconfitte che hanno coinvolto nei destini degli sconfitti anche i tomi depositari delle loro culture.
Il Don Chisciotte di Cappuccio è un cavaliere di una crociata laica e pacifica, combattuta con le armi della lingua e delle lingue, della retorica, dei conflitti significante versus significato; la narrazione avviene con quella circense coesistenza di nostalgia e ilarità, di gioco e di sfida ad una morte in agguato e accarezzata come amica ed essenza stessa dell’artista del circo, come di chiunque si ponga l’obiettivo non di sopravvivere, ma di vivere la propria vita.
La dimensione industriale è tutta nella scenografia di Nicola Rubertelli che abbonda di materiali “freddi”, meccanici, diremmo siderurgici, da industria fordista:; sulla scena oggetti e accessori che rimandano al viaggio, reale, ferroviario e naturalmente onirico-letterario le cuoi andate e ritorni sembrano rimbalzare sull’immagine di Giovan Battista Vico ripreso dalla citazione dell’Istituto di Studi Filosofici del vero nume tutelare della messa in scena, il citato compianto avvocato Marotta.
Sulla scena i circensi attori sono l’ottimo Giuseppe Esposito che sta a Cappuccio come Peppino a Totò, e la sempre efficace Marina Sorrenti, affiancata Gea Martire, Giulio Cancelli e Ciro Damiano, tutti, per restare nella metafora ferroviaria, ad Alta Velocità.
Quasi sorprendente la insospettata varietà di registri di Ruggero Cappuccio, di cui era nota e apprezzata la nitidezza della recitazione, ma che qui scopriamo acrobata dei registri vocali e delle dinamiche, con vere e proprie “cabalette” virtuosistiche che esaltano le “romanze” recitate.
Le luci di Nadia Baldi, che è anche aiuto regista, accentuano le suggestioni della narrazione di Cappuccio ed esaltano i costumi di Carlo Poggioli; tutto il carrozzone si muove sulle musiche di Marco Betta, puntuali nell’inserirsi nel caleidoscopio di significati e di riferimenti.

Dario Ascoli

Stampa
Share.

About Author

Comments are closed.