La Bohème nelle ombre della tradizione

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«Il successo è stato trionfale: trenta volte, durante la serata, or solo, ora in compagnia degli artisti, Giacomo Puccini si è presentato a ringraziare il pubblico napoletano, raccolto in folla nella grande sala del magnifico teatro (…) spettacolo di prim’ordine, organizzato con reale decoro ed allestito senza risparmi, con interpreti eccellenti » (Don Marzio, 16 marzo 1896).
Così, all’indomani della prima partenopea di La Bohème di Puccini al San Carlo di quel lontano anno e ancor più lontano splendore.
Nonostante gran parte della critica specializzata di fine ‘800  temesse  un riscontro di pubblico limitato alla fascia più giovane  che potesse immedesimarsi nei  bohèmien, il successo fu trionfale e intergenerazionale.
“Tutta poesia e niente fatto” per Bohème, sono parole dello stesso Giuseppe Giacosa, la verità del soggetto, pur conservando qualche tratto autobiografico appare filtrata in un’operazione idealizzante della memoria. Henri Murger (1822 – 1861) autore dapprima del romanzo d’appendice “Scenes de la Bohème” divenuto commedia come “La vie de Bohème”, rappresentata nel 1849 con tale successo da indurre l’autore a realizzarne un romanzo col titolo con cui è giunto ai librettisti di fine secolo Giacosa- Illica di “Scènes de la vie de Bohème”, aveva amato una Lucille, detta Mimì che era morta a soli ventiquattro anni di tisi all’Ospedale de La Pitié; in Rodolphe, Murger aveva rappresentato se stesso, ai tempi in cui divideva una soffitta parigina col pittore Léon Noël). Una favola bella e triste che riesce a creare un’illusione di realtà attraverso l’ambientazione dimessa: soffitte fredde, osterie, strade del Quartiere Latino, in cui si muovono personaggi che colpiscono per la loro misura quotidiana e antieroica.
La letteratura e ancor più il melodramma avevano bisogno, superate le argomentazioni risorgimentaliste, di porre al centro personaggi e vicende della vita comune, il bivio che si prospettava conduceva al verismo da un ramo e all’impressionismo dall’altro. Puccini si differenziò subito dalla maggior parte dei suoi contemporanei rinunciando a qualsivoglia suggestione verista ed in questa scelta il motivo del successo della sua Bohème rispetto all’opera su analogo soggetto di Leoncavallo.

Mirabile e innovativa è la tecnica drammaturgica dell’opera (quattro quadri chiusi, su cui, in sequenza, si accendono i riflettori) priva di evoluzione,  in cui ampio spazio è lasciato ai momenti di contemplazione lirica e pura poesia. Due atti gai, poi due tristi, con sottili corrispondenze fra il primo e l’ultimo: i due atti ” della soffitta” sono infatti entrambi nettamente divisi in due parti, l’una movimentata, l’altra statica (rispettivamente scherzosa e lirica nel primo, scherzosa ed elegiaca nel quarto).
Il secondo atto è invece una sorta di “scherzo” turbolento, il compositore, nell’evocare l’atmosfera della vigilia di Natale in un boulevard parigino, mette a frutto la sua straordinaria abilità nel tratteggiare movimenti di massa.
Il terzo atto, dove calano le prime ombre sulla vicenda amorosa dei protagonisti, appare invece come un dolce e struggente “Andante”, e non si finirà mai di ammirare la finezza del contrasto comico creato dalla coppia Marcello-Musetta alle effusioni sentimentali di Rodolfo e Mimì.
Caratteristica la stagionalità dei vari episodi e il freddo a condizionare e dilazionare le decisioni: “l’amore è energia termica” (Erri De Luca).
La spontaneità di Bohème si traspone, immediatamente, nello “stile di conversazione” assai lontano dal tono stentoreo del “grande” melodramma, nella naturalezza dell’intonazione che deriva dalla giustapposizione di piccoli incisi che si coagulano liberamente nel tessuto orchestrale spezzando la quadratura della frase musicale e la simmetria del pezzo chiuso a favore dell’intonazione della “parola scenica”.
E “alla francese” comincia l’aria pucciniana, che non possiede la potenza di certi avvii verdiani, ma emerge come da un semplice parlando, su un trasparente tessuto orchestrale, con una sussurrata sillabazione che a poco a poco si apre al cantabile”.
In questo è racchiusa la toccante “leggerezza” di Bohème, la sua misura piccolo borghese che segna un deciso superamento dei modi verdiani dell’Aida e di Otello nonché di tutta la tradizione e della “grande opera”.
Nella diafana leggerezza della trama strumentale, nei delicati tocchi “impressionistici” e (pre)debussiani, si manifesta ancora una volta la squisita sensibilità francese del musicista.
Puccini introduce le innovazioni wagneriane, quali una tecnica solo apparentemente sinfonica, ma più correttamente definita “a mosaico”, e l’adozione del Leitmotiv. I suoi “motivi conduttori” nascono da una frase vocale, dal canto stesso del personaggio e a quelle parole in maniera evocativa restano indissolubilmente legati richiamandole ad ogni ritorno. Così: Nei cieli bigi, Mi chiamano Mimì, Che gelida manina, Talor da mio forziere ruban tutti i gioielli, Voglio fare il mio piacere, vo’ far quel che mi pare, Sono andati? Fingevo di dormire.
Puramente strumentale è invece il “tema-motto” che apre l’opera e ne incarna lo spirito in un sol colpo, tema associato a Marcello, ma meglio identificabile come tema bohèmien per eccellenza. Non è forse un caso che esso sia tolto dalla parte centrale di un Capriccio Sinfonico scritto dal compositore nel 1883.
Bohème fa riferimento a un costume di vita che era divenuto d’attualità nell’ambiente della “scapigliatura” milanese, ambiente che Puccini aveva personalmente conosciuto, quando, giovane studente di conservatorio, divideva con Mascagni una modesta stanzetta al Vicolo San Carlo.
Diario nostalgico di una giovinezza povera, ma piena di illusioni e speranze, è in fin dei conti il capolavoro pucciniano: “per sogni e per chimere/ e per castelli in aria/ l’anima ho milionaria” intona l’idealista Rodolfo.
“Bella età d’inganni e d’utopie” la giovinezza è meravigliosa nella sua inconsistenza, nella sua caducità, nella sua rievocazione nostalgica il senso profondo di quello che è senza dubbio il più alto e autentico esempio di decadentismo in musica.
La prova generale del 10 gennaio 2018  al Teatro di San Carlo, ha visto impegnato il secondo cast: perfetta dizione e sicurezza scenica hanno caratterizzato la performance del soprano Elena Mosuc che ha incarnato una Mimì garbata e misurata, il Rodolfo di Massimiliano Pisapia, scenicamente convincente, specialmente nelle parti d’assieme, è parso appesantito vocalmente e a volte opaco nei tratti più lirici. Gladys Rossi, che ha ben saputo conciliare le apparenti contraddizioni di Musetta, i suoi aspetti civettuoli con quelli più generosi e delicati, non ha impressionato per volume vocale. Ottima prova per gli altri inquilini della soffitta: divertente e a tratti emozionante il Marcello interpretato da Vincenzo Nizzardo, incisivo e di temperamento Alessio Verna nei panni di Schaunard, commovente il Colline di Laurence Meikle.
All’altezza il Benôit/Alcindoro di Matteo Ferrara e il Parpignol di Stefano Pisani. Ineccepibile ed esperta la direzione di Stefano Ranzani che, pur tra le alterne virtù del cast vocale,  ha saputo valorizzare la funzione continua dell’orchestra in stretto rapporto con quanto in scena e rendere giustizia ad una tavolozza armonica ardita, raffinata e ricca di sfumature.La regia di Mario Pontiggia coerente nell’intento dei quadri separati e della stagionalità dell’azione, ha restituito con misura e realismo gli ambienti, prevedendo una sola grande esplosione di colori, luci e movimento in corrispondenza del secondo quadro.
Troppo poco per essere ripresa da una grande Fondazione Lirico-Sinfonica. Ma siamo nel 2018.
Simpatico exploit per il coro diretto da Marco Faelli e per il coro di voci bianche curato da Stefania Rinaldi. Ricercati e ricchi nelle fogge e nei colori i costumi a cura di Francesco Zito che si è occupato altresì delle scene.

Mariapaola Meo

Foto di Francesco Squeglia © riferita al primo cast

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