Intorno a “La serva padrona” e al suo ritorno al San Bartolomeo

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Sabato 3 e Domenica 4 novembre 2018, rispettivamente presso la Chiesa di San Potito e la Chiesa della Graziella di Napoli, è stato presentato al pubblico il doppio intermezzo “La Serva Padrona”, che segna l’inizio dell’opera buffa nel panorama teatrale italiano.  Musicato da Giovan Battista Pergolesi come momento di intrattenimento durante l’intervallo dell’opera seria “Il prigionier superbo”, il componimento lirico vede la sua prima rappresentazione a Napoli nell’agosto del 1733 e approda negli anni successivi all’attenzione del pubblico parigino.
Frutto di un lavoro laboratoriale che ha visto collaborare il periodico Oltrecultura con l’Associazione “Ad Alta Voce” di Napoli e il Liceo Alfano I di Salerno, la meticolosa e pregevole operazione di ricostruzione si è avvalsa della partitura originaria dell’autore e ha ripreso le interpolazioni di Pierre Baurans del 1754, dando luogo a un concertato ricco di metafore sociali, come sottolineato dal curatore Dario Ascoli. Il componimento pergolesiano, che costituisce un progresso della drammaturgia lirica grazie alla sua capacità di rendere il costrutto musicale sempre più aderente alla parola, nel creativo adattamento di Ascoli esalta ulteriormente la valenza del genere comico quale occasione di destrutturazione dell’establishment sociale e mette ancor più in evidenza la portata rivoluzionaria dell’opera buffa napoletana.
Opera, questa di Pergolesi, restituita dopo oltre 285 anni al luogo di rappresentazione originario, l’antico teatro di corte San Bartolomeo di Napoli, oggi centro di musica da camera del CERSIM. Un’opera le cui intuizioni musicali e drammaturgiche saranno ampiamente riprese da Mozart, dal “Don Giovanni” al “Così fan tutte”, e che rompe i costrutti metafisici e gli schemi moralistici, sebbene senza deliberata intenzione, anticipando il pensiero che poi elaborerà Nietzsche in merito all’opera lirica.
Pur nascendo da un’esigenza pratica, quella di intrattenere lo spettatore tra un tempo e l’altro dell’opera seria, già nell’antica rappresentazione in avanscena l’intermezzo scherzoso operava di fatto (forse inconsapevolmente) un accorciamento delle distanze tra spazio rappresentativo e spazio fruitivo. La scena si spopola degli eroi e si riempie degli anti-eroi, ovvero dei protagonisti della vita quotidiana: contadini, paesani, servi che la fanno da padroni.  Interessante notare come l’intermezzo buffo capovolga i ruoli dell’opera seria anche nelle voci canore: il protagonista-signore-baritono dell’opera buffa fa da pendant al protagonista-nobile-tenore dell’opera seria.
Nota l’annosa querelle ancorata ad una duplice convinzione: da una parte l’opera seria che sola può rivolgersi alle menti elevate, a un uditorio socialmente altolocato; dall’altro, l’opera buffa indirizzata immancabilmente al volgo desideroso di risate e di turpiloquio.  In realtà, con l’opera buffa si consuma esattamente il ribaltamento di tale posizione, se si pensa che in maniera sottesa essa contiene una portata culturalmente eversiva: il volgo riesce a catturare incoscientemente l’attenzione dei nobili, che così si riappropriano nuovamente del linguaggio dell’inconscio, delle memorie del sottosuolo (parafrasando il titolo di un’opera letteraria di Dostoevskij che risale a circa un secolo dopo). I nobili, partecipando all’opera buffa, in un certo modo travalicano la rigidità formale dei rituali aristocratici e si immergono nella irritualità dei modi plebei. Per giunta, mentre l’opera seria è sempre tragica, l’intermezzo buffo riconcilia gli opposti che nella vita si mantengono inalterati: dolore e gioia, lacerazione e ricomposizione, apollineo e dionisiaco.
Indovinata, dunque, la scelta di ricorrere all’opera buffa per rappresentare la realtà quotidiana con tutte sue sfumature: le incomprensioni, le scaramucce amorose, le piccole contrarietà che attraversano le relazioni interpersonali, quelle vissute all’insegna della semplicità e dell’essenzialità.
Si tratta di un’operazione di avvicinamento di epoche, di contaminazione di sensibilità artistico-culturali: è il precipitato di un tempo andato che vuole fertilizzare culturalmente quello presente, farlo vibrare nuovamente nella memoria, rileggerlo e ripensarlo alla luce della contemporaneità, offrendolo infine alla fruizione di anime fustigate dalla logica del fare pragmatico e produttivistico per edificarle nel pathos delle sublimi armonie artistiche.
La musica, egregiamente eseguita dall’orchestra Concentus Giuseppe Sigismondo, traduce bene la leggerezza e la vivacità del vivere cortigiano, non così lontano dallo spirito post-borghese che ci caratterizza. Le voci liriche, cristalline, danno un’impronta di autenticità allo svolgersi della diegesi e alla drammatizzazione dei fatti narrati. In alcuni passaggi, anche per la vicinanza tra pubblico e artisti, favorita dalla location di dimensioni contenute, si ha l’impressione di entrare nella scena e di parteciparvi con intensità, allegria e spensieratezza. Certo, non si tratta di una composizione attuale nel senso stretto del termine, ma sicuramente la sua modernità ermeneutica sul piano tematico-culturale riesce ad operare una trasposizione tra realtà e finzione, tra presente e passato, tra palcoscenico e platea, tra pragmatismo e fantasticheria. Le tante sollecitazioni che inducono alla facile risata hanno un effetto rigenerativo sullo spirito, consentendogli di sollevarsi per un attimo dalla miseria delle grigie frustrazioni accumulate nella vita di tutti i giorni.
Il cast e l’orchestra, formati quasi nella loro interezza da giovani talenti, danno un tono frizzante all’esecuzione operistica e si rivelano quanto mai coerenti con le intenzioni diegetiche. La naturalezza delle voci e dei suoni, non amplificati da apparecchi elettronici, rende più comunicativa un’opera leggera e divertente, ma insieme eloquente e vibrante, grazie alla magistrale direzione orchestrale di Dario Ascoli e alla sapiente regia di Tonia Barone, entrambe pensate nel rispetto dell’originale trama artistico-musicale. Le coreografie di Max Scardacchi recuperano con discrezione la gestualità della pantomima senza interrompere il flusso narrativo e la priorità canora, snodandosi nel corredo scenografico curato con grazia da Laura Lisanti. Segretaria di Produzione, Mariapaola Meo. Interpreti: Rosita Rendine, Maria Cenname, Nicola Ciancio, Jaime Edoardo Pialli, Chiara Marani, Maurizio Bove, Chiara La Porta, Edoardo Ferrari, Maurizio Paolantonio ed .
Cosa potrà dire a noi un’opera così lontana? Al pensiero poco, alle emozioni molto. Un intermezzo scherzoso di un’opera seria sembra appunto la nicchia di uno spazio rigenerativo destrutturato a dispetto della plumbea funzionalità del fare post-moderno spesso incapace degli slanci spirituali tipici dell’arte. Esso favorisce una sana fuga dal presente alla ricerca di sensi altri e di vibrazioni emotive ormai perdute. Si assiste, da “spettatori” integrati, alla messa in scena dei propri drammi e delle proprie pulsioni. La distanza che separa pubblico da maschere si assottiglia via via nel procedere della trama. Un amalgama progressivo unisce nello spazio scenico ravvicinato attori e spettatori, figuranti e platea, interpreti e personaggi con cui si può identificare ciascuno degli spettatori. In tale ottica, diventa interessante come si ricompone il rapporto distonico tra nobiltà e servitù, tra ricchezza e povertà, tra plebe e aristocrazia, tra femminile e maschile, tra padroni e servi.
Questi opposti riescono a riconciliarsi nella lucidità della comprensione, nel brio dell’incontro, nella sagacia della mediazione, nell’ebbrezza dei sentimenti comuni. Non a caso le nozze finali suggellano, nella polifonica coralità, la possibilità di superare le distanze sociali e culturali proprio attingendo alla profondità dell’elemento sentimentale, alla fertilità dei territori dell’anima.

Questa master class di qualità dimostra con evidenza che l’arte è davvero in grado di nobilitare l’uomo, che l’espressione artistica opera una sorta di riscatto dalla mediocrità, che senza finzione poetica (in senso lato) si rischia solo l’abbrutimento dell’anima.

Giuseppe Pantuliano*

*per gentile concessione di TDS TV

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