La lungimirante analisi di Cechov ne Il Gabbiano al Mercadante di Napoli

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Alcune opere teatrali sono marcatamente teatro di parola, sottintendendo che il lemma assume un valore assoluto e diventa metatesto.
Questo è ciò che accade ne Il Gabbiano di Cechov, dove la naturalistica messa in scena è un sostegno alla parola che si fa  metafora e allegoria. Lo stesso accade per gli interpreti che vivono il doppio ruolo di personaggi funzionali alla storia narrata e maschere che rappresentano la società poliedrica del tempo, esponendone le ombre e le luci. La società mostrata  è quella russa di fine Ottocento, pienamente occidentalizzata sia nei costumi che nella cultura letteraria, nonostante conservi  sacche di identità ancestrali.

Al Mercadante di Napoli dal 22 al 27 gennaio 2019 è in scena Il Gabbiano nella produzione del Teatro Nazionale di Genova del marzo del 2017 che ha registrato un grande successo, di cui il regista Marco Sciaccaluga porta in scena la versione del 1895, precedente alla censura zarista, nella traduzione curata da Danilo Macrì.
Ad incorniciare lo spettacolo é uno spazio scenico componibile a seconda dell’azione delimitato dall’impalpabile immagine del lago, creato insieme ai costumi, da Catherine Rankl. Questo spazio in continua trasformazione appare riprendere le prime battute di TreplevEcco il teatro. Il sipario, la prima quinta, poi la seconda e oltre lo spazio vuoto. Niente scene. La vista si apre direttamente sul lago e sull’orizzonte.
Gli stati d’animo e le azioni sono sottolineati dalle luci di Marco D’Andrea e dalle musiche di Andrea Nicolini.
Si tratta di un testo di denuncia della condizione della Russia sul finire del secolo: una società ormai in declino, incapace di affrontare il nuovo mondo che andava delineandosi, inadeguata per risolvere i contrasti emergenti, affascinata solo dalla propria decadenza. E il termine “decadenza” è ripetuto a più riprese per sottolineare il riconoscersi nella corrente culturale omonima, al punto di citarne apertamente alcuni esponenti come la Duse e sottintendere che la sola vita da vivere sia  quella che si identifica con l’opera d’arte. La tematica di fondo appunto è l’incapacità di realizzare il sogno di vivere come un’opera d’arte di altissimo livello: tutto ciò che imprendono i protagonisti è destinato alla sconfitta.
Lo stesso stato zarista è rappresentato come incapace di evolversi e orgoglioso di crogiolarsi nella propria indolenza e immobilismo. il personaggio simbolo è Petr Nikolaevic Sorin, interpretato da un bravissimo Federico Vanni, la cui unica arma è il compianto rassegnato e cerca invano, quasi un rifugio nell’altrove, di sostenere la creatività del proprio nipote Konstantin Gavriloviè Treplev, interpretato da un altalenante Francesco Sferrazza Papa, personaggio emblema del nuovo, delle speranze di creare una nuova drammaturgia, una nuova poetica, una nuova arte, dominata dal rinnovamento delle forme dove la parola intrisa di simbolismo sia sovrana, oltrepassando il guado del significato e della narrazione.
A lui si contrappone Boris Alekseeviè Trigorin, il letterato interpretato amabilmente da Stefano Santospago, ancorato alla certezza della forma e del modello che rinnega chi vuol legarsi all’arte astratta e all’innovazione. E poi il variegato mondo degli uomini come il medico Evgenij Sergeeviè Dorn, (Roberto Serpi) che non si schiera mai apertamente con nessuno, Semen Semenovic Medvedenko, maestro (Andrea Nicolini) che invece richiama il mondo in affanno per sopravvivere, Il’ja Afanas’eviè Šamraev, amministratore da Sorin (Roberto Alinghieri) furbo e al tempo stesso incapace di imprendere realmente.
Al mondo maschile si contrappone il mondo femminile. Due madri: la prima Irina Nikolaevna Arkadina, attrice, interpretata splendidamente da Elisabetta Pozzi, che conduce una vita intensa e ancora alla ricerca di un amore impossibile da vivere solo con letterati; la seconda Polina Andreevna, moglie di Šamraev (Elsa Bossi) che alla monotona e inutile vita di campagna con il marito ha costruito un mondo parallelo intessendo una relazione con il dottore. Entrambe le donne hanno un pessimo rapporto con i propri figli, ponendoli in secondo piano, entrando in competizione con loro. Se l’attrice denigra il lavoro del figlio come commediografo e come scrittore, lo deride; la moglie vive e realizza le sue passioni amorose costringendo la figlia ad accettare una morale borghese la scelta del benessere piuttosto che del vero amore.

Le due donne giovani: Maša, figlia di Polina Andreevna, interpretata con il giusto equilibrio da Eva Cambiale, che rinuncia al suo amore e ai sogni, sposa il maestro conducendo con lui una vita borghese infelice nonostante la nascita di un figlio, dedita all’uso di droghe e alcool, e amando sempre segretamente il giovane Konstantin; Nina Michailovna Zareènaja, una giovinetta, interpretata incertamente da Alice Arcuri, che realizzerà il suo sogno di divenire attrice, non riuscendo a pieno però, anzi con il dolore della perdita del figlio e la perdita dell’amore dell’uomo. Kostantin l’uomo innamorato, il poeta i cui sentimenti sono feriti non può che scegliere la strada del suicidio.
Essenza della pièce è forse ne: “Un soggetto per un racconto breve: sulla riva di un lago vive fin dall’infanzia una ragazza, giovane come voi; ama il lago, come un gabbiano, ed è libera e felice come un gabbiano. Ma il caso portò un uomo che la vide e, per ammazzare il tempo, la rovinò, proprio come questo gabbiano.

Tonia Barone

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