Umberto Orsini. Il costruttore Solness: c’est moi

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È un palcoscenico cinereo, con quinte/pareti altissime e mobili che di volta in volta durante l’arco del lavoro teatrale disegneranno l’interno di uno studio, stanze claustrofobiche, impalcature turrite che rimandano all’immaginario spaziale dell’ascesa e della caduta, gabbie da cui fuggire, luoghi che faranno da sfondo alla rappresentazione del dramma sino al tragico finale (catartico?) in cui fagociteranno ed ingloberanno il personaggio principale Halvard Solness, vecchio ed affermato architetto. Il costruttore Solness del norvegese Henrik Ibsen, datato  1892, è un testo complesso, denso di rimandi psicanalitici (e non solo) non molto rappresentato che la Compagnia di Umberto Orsini assieme al Teatro Stabile dell’Umbria ha portato in scena con successo al Teatro Verdi di Salerno.
Un allestimento che si avvale della regia onirica e simbolica di Alessandro Serra (vincitore del Premio Ubu come miglior spettacolo del 2017 con la pièce Macbettu e che qui ha ideato anche le scene, le luci ed i costumi) in cui un ruolo fondamentale è svolto dall’illuminazione, elemento essenziale in questa performance, che nelle sfumature cupe, grigio/blu, sino al buio quasi completo, produce un effetto straniante, in perfetta sintonia con i demoni interiori del protagonista. Un impianto scenico ben studiato, in bilico tra realtà e metafora che racconta i rimorsi, la paura, la coscienza, il malessere e il destino di un uomo arrivato all’apice della carriera, insoddisfatto e demotivato, che in nome della propria ambizione creativa ha pagato un prezzo altissimo (la morte dei due figli e la conseguente malattia della funerea moglie Aline) e nell’orrore del tempo che tutto distrugge, cerca un senso nuovo per continuare a vivere, un futuro da sperare… Il personaggio di Hilde Wangel, la giovanissima ragazza che irrompe nella sua esistenza dopo un fugace incontro avvenuto dieci anni prima, non è che l’altro sguardo, lo specchio che narcisisticamente lo riflette (bellissimo il gioco di luce che ad un certo punto della trama, si rifrange sull’uomo, squarciando l’oscurità che lo avvolge, ridefinendolo, quasi a dargli nuova linfa in un presente tetro e opprimente, grazie appunto ad uno specchio ruotato da Hilde); quella giovinezza ormai bruciata insieme alla sua casa e i figli; l’ultimo, infruttuoso slancio verso un dimenticato ardore; un’impossibile promessa di felicità. Difatti la conturbante e sensuale Hilde, incarnazione della potenza del desiderio che sembra unire i corpi e le anime, pare offrirgli un possibile riscatto e invece lo inabisserà da altezze vertiginose, spingendolo al di là dei suoi limiti. Fa da sottofondo al dramma personale di Solness l’ambientazione borghese e l’atavica lotta generazionale (il giovane architetto Ragnar scalpita e progetta all’ombra del Maestro che gli è ostile, aspettando il momento giusto per diventare autonomo).
La rappresentazione, condensata in quasi due ore, non ha un andamento spedito, intessuta come è da una scrittura non facile, che suggerisce diverse chiavi interpretative e significanti; da silenzi e cambiamenti scenografici; ma ciò non sminuisce lo spessore e l’impatto emotivo del testo, anzi sembra impreziosirlo e valorizzare le singole recitazioni. Chapeau per Umberto Orsini nelle vesti di Solness, che fa sfoggio della sua lunga esperienza e dosando limpidi registri vocali e climax espressivi, senza alcuna forzatura, con una padronanza invidiabile, esemplare, offre una grande prova di stile e misura apprezzatissima dal pubblico. D’altronde lo stesso attore qualche giorno fa, ha dichiarato in una intervista, di non voler caratterizzare il personaggio che è da tempo nelle sue corde esistenziali, ma di voler portare in scena se stesso, per cui questo lavoro ibseniano diventa una sorta di sguardo autobiografico… Lucia Lavia, figlia d’arte cresciuta tra quinte e palcoscenici, interpreta egregiamente Hilde. L’attrice dotata di una bella presenza scenica e solide basi, gioca col suo ruolo fascinoso e vitale, potenzialmente pericoloso, ambiguo quanto basta, perentorio nelle sue richieste ed aspirazioni (“Voglio il mio regno!” E’ “un castello in aria” che Hilde chiede al “suo” costruttore). Brava. Aline è la convincente Renata Palminiello, la moglie tristissima e spenta che si aggira, non a caso, come uno spettro. Degni comprimari Pietro Micci (il Dottor Herald), Chiara Degani (Kaja), Salvo Drago (Ragnar) e Flavio Bonacci che interpreta Knut Brovik.
Visto e applaudito sabato 2 marzo 2019 al Teatro Verdi di Salerno. Da vedere. Si replica sino a martedì 5 marzo.  

Dadadago

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