IL JAZZ-FILMICO grazie a grandi musicisti eclettici

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Bisogna attendere il decennio successivo per il primo capolavoro jazz-filmico con Jammin’the Blues nel 1943 di Gjon Mili.
Si può parlare di “jazz-film” in Improvisation del 1950, rimasto inedito per decenni, dove il protagonista è ormai un nuovo be-bop, che duetta con Charlie Parker, mentre una funambolica Ella Fitzgerald arriva a vertici supremi.
Nei musical più recenti il jazz torna a far capolino qui e là, grazie alla presenza di musicisti eclettici: ad esempio sono i grandi cantanti a ritrovarsi in partecipe spesso divertenti, esempio Louis Armstrong in Hello Dolly! o ancora Cab Calloway in The Blues Brothers. Nel cinema post-moderno sono ancora le donne vocalist a farsi notare, prestando la propria immagine canora a ruoli a non ridicolizzarne la personalità artistica.
E’ un dato di fatto che il musical cinematografico accolga al proprio interno il jazz grazie all’indiscussa popolarità, coinvolgendolo nella realizzazione dei soundie tra gli anni ’30 e ’50, proseguendo con la presenza di musicisti sullo schermo quali attori, comparse, testimonial, per terminare soprattutto con l’innesto del peculiare ritmo sincopato.
D’altronde il jazz e il blues più o meno direttamente dagli anni ’30 in avanti influenzano tutta la musica leggera: senza il black sound lo stesso rock non esisterebbe. Se dunque non è un caso che si parli di classicità tanto per il jazz quanto per il musical cinematografico a proposito di quegli anni, il discorso invece si complica nel passaggio verso il moderno, con le contraddizioni che il dopoguerra mondiale (dal 1945) comporta in campo artistico e mediologico: il cinema mantiene ancora per un decennio il primato di spettacolo popolare tra i mezzi di comunicazione, prima del trionfo della TV.
L’industria hollywoodiana, ancora fiorentissima, si adegua alle nuove esigenze dei tempi cambiati: sull’onda del neorealismo, le storie diventano più verosimili e meno fiabesche, i divi diventano più vicini ai dubbi e ai tormenti delle ultime generazioni, trovando un parallelismo con i suoni di una volta più complessi, avanguardisti, europeizzanti delle tendenze afroamericane di matrice sia bianca (cool, west Coast, third stream) sia nera (bebop, soul, hard bop).
Esistono film rievocativi sulle origini del cinematografo e sulle glorie del muto, così abbondano i rifacimenti degli stili (vecchi) delle origini (il dixieland revival): due cammini paralleli che talvolta s’incontrano, quando è il cinema a portare sullo schermo i miti del jazz appena trascorso, glorificandoli in biografie più o meno attendibili o a impiegare i jazzmen nella scrittura delle colonne sonore. >
Grazie alla maggiore preparazione tecnica i jazzmen sono ormai capaci di lavorare a tempo pieno per il grande schermo, adattando però la propria musica alle esigenze non solo del racconto filmico ma soprattutto dell’industria del cinema. Il jazz nel dopoguerra si trasforma, quando è suonato da neri, in un linguaggio complesso con ambizioni estetiche (il be-bop), talvolta sperimentali (il free), mentre i bianchi non rinunciano a flirtare con i grandi numeri (il cool) e talvolta persino con il mondo di Hollywood (il west coast), fino al preponderante ingresso delle musiche giovanili (il rock ed il pop)nelle colonne sonore delle nuove generazioni.
Tuttavia l’arrivo del rock consentirà al jazz, negli anni recenti di rifiorire su basi originali, grazie a Keith Jarret, Uri Caine, Steve Coleman, per citare i casi più emblematici. 

Gabriella Spagnuolo

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