«A la mémoire d’un grand artiste»: Il Trio di Čajkovskij a Villa Di Donato

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Il soggiorno in  Italia per Pëtr Il’ič Čajkovskij rappresenta un periodo di particolare, sensibile fertilità, durante il quale viene quasi interamente alla luce “La Dama di Picche”, la “Serenata per archi”, il “Capriccio Italiano”, ma anche alcune significative pagine di musica da camera, tra le quali spicca il “Trio in la minore per pianoforte, violino e violoncello”.
La monumentale partitura, che formalmente prende la distanza dalle architetture sonatistiche, costituisce il programma del concerto di lunedì 24 febbraio alle 20,30 a Villa di Donato di Napoli, nell’ambito della Rassegna #Max70 dedicata alla Musica da Camera e ne saranno interpreti lo stesso direttore artistico David Romano, al violino insieme con Diego Romano al violoncello e Mario Montore al pianoforte.
«A la mémoire d’un grand artiste. Roma, Gennaio 1882» annota Čajkovskij sul frontespizio del manoscritto del Trio in la minore op.50, adoperando un singolare bilinguismo; il dedicatario è Nikolaj Rubinstejn,  scomparso a Parigi nel marzo del 1881, con un’uscita di scena decisamente antiromantica.
Il maturo pianista, direttore d’orchestra e compositore Grigor’evic Rubinstejn è già gravemente malato di tisi quando decide di lasciare la fredda Russia in cerca russo Nikolaj di nuove energie e di un’improbabile guarigione in Costa Azzurra dove, a Nizza, lo attende Čajkovskij.
Non riuscirà a raggiungere per l’insorgere di un’ennesima crisi che gli farà fare tappa a Parigi, dove incontrerà Massenet e lo scrittore Turgenev, nonché il maggior luminare del tempo nella cura del male di quel secolo, il quale, tuttavia, si limiterà, come nell’ultima scena di un melodramma, a dichiarare l’ineluttabilità della imminente fine.
Nessun librettista d’opera, però, avrebbe osato far calare il sipario su un protagonista che, pochi minuti prima di spirare, si fosse seduto ad una ricca tavola cibandosi abbondantemente di costose ostriche innaffiate da altrettanto poco parsimonioso Champagne: Un’uscita di scena che avremmo potuto trovare in Offenbach, non certo in Verdi o in Puccini.
E per celebrare una dipartita così singolare, quanto dolorosa per amici ed estimatori, Čajkovskij viene meno ad un proprio criterio di equilibrio musicale che gli aveva fatto affermare: «Un Trio presuppone uguaglianza di diritti e omogeneità, come avviene nel Trio per archi. Ma come può esistere una tale omogeneità fra strumenti ad arco da una parte e il pianoforte dall’altra?»
I colori e le atmosfere italiane, unite al sincero dolore per la perdita, contribuiscono a fare nascere il “Trio in la minore op.50”, che resterà unico esempio nel catalogo del compositore e che formalmente si presenta con un’Elegia e un Tema con 12 Variazioni.
Un grande impegno per gli interpreti, anche in considerazione di quei principi di equilibrio che l’autore intendeva raggiungere e cui  in questa pagina sembra volere a tratti derogare per poi riaffermare con solenne convinzione per dare una circolarità che all’ “Elegia” inziale fa corrispondere il “Lugubre” finale, che esprime il tema della morte, ricorrente in Čajkovskij, come un’implorante richiesta di vicinanza che, probabilmente nell’arco della tormentata vita non ha mai avuto confortante risposta.

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