La soglia da attraversare senza guardarsi indietro

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Ci sono lacrime del cuore che non arrivano agli occhi”.
Sono queste le ultime battute de La soglia, testo scritto dal drammaturgo francese Michel Azama nel 1986 dopo un laboratorio che l’autore ha tenuto nella sezione femminile del carcere di Rennes con dodici donne detenute per lunghe pene.
A metterlo in scena è la compagnia Grandi Manovre di Forlì ospite sabato 19 marzo 2022 al teatro Genovesi di Salerno per il Festival XS. Uno spettacolo applauditissimo dal pubblico in sala, che arriva come un fendente nel petto, con la forza del suo linguaggio veloce e tagliente, con la sua regia dinamica, pervasa di movimento e furore, con le sue interpreti calate totalmente in una situazione claustrofobica e castrante, ambedue alter ego sul palco di persone che realmente vivono l’inferno del carcere, la negazione della vita e della libertà, la morte pur respirando. Protagonista è la liberante, una donna che ha ucciso senza un apparente motivo il suo uomo, in attesa di uscire dopo anni di prigione, in quei momenti che precedono appunto l’apertura del portone, in quello spazio, le sas, anticamera tra il dentro ed il fuori, quella soglia che divide un luogo dall’altro, preludio di un nuovo inizio o di una nuova fine, uno strano posto tra due mondi, come afferma lo stesso Azama. Al di qua del limite, infatti, ci sono le sbarre che chiudono e “proteggono” chi è confinato al loro interno, mentre al di là di questa linea immaginaria, si aspetta di riassaporare l’esistenza coi i suoi salti nel buio. Le sas è un territorio accidentato e ambiguo, fatto di rievocazioni del lavoro, delle punizioni, delle visite familiari, in cui si tessono promesse, rimorsi, nostalgia, amicizie, l’eros saffico vissuto per non impazzire, immagini rabbiose, addii, parole che esorcizzano la paura, l’angoscia, il sentirsi inadeguate, intimorite dalla libertà lì finalmente a portata di mano.
Pochi gli oggetti di scena, compaiono soprattutto vesti cambiate al volo, come a voler mutare la pelle, forse a simboleggiare i diversi stadi emotivi della donna; nel lungo grido di dolore le voci che si sovrappongono, i ricordi, i vari livelli testuali sono accompagnati da un gioco di luci (Giorgio Cervesi Ripa) particolarmente espressivo e dalle musiche originali (Renato Billi), a loro volta essenziali per restituire atmosfere e contenuti. A dare corpo e anima alla liberante e ai vari personaggi del mondo carcerario sono Beatrice Buffadini e Francesca Fantini, due volti dello stesso destino e della medesima voglia di essere, al di là di tutte le mancanze e di tutte le costrizioni, vive.
Le loro intense interpretazioni rendono questo testo, già di per sé realistico e toccante, assolutamente da non perdere. Una simbiosi artistica equilibrata che lascia emergere le doti di ambedue, anche se il nostro personale plauso viene assegnato alla protagonista
Beatrice Buffadini, che tratteggia un personaggio disturbato e disturbante con un ampia tavolozza di registri attoriali, attraverso un uso sapiente della mimica, della voce, delle intonazioni.
La strepitosa regia di Loretta Giovannetti che ha trasformato il monologo originale in una azione scenica in cui la gestualità ha un peso notevole, ha saputo far emergere dalle pieghe della urticante scrittura fragilità e violenze che si consumano lontano dai nostri sguardi senza leziosità, con una sensibilità tale da annullare la distanza tra “noi” e “loro”.
Chissà, forse per tutti, metaforicamente, prima o poi c’è le sas e pare che non bisogna voltarsi indietro…

Dadadago

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