Aurelio Schiavoni, maestro di stile e di tradizione

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«Studiavo già pianoforte quando ho iniziato a cantare nel coro del liceo e da lì, poi, in vari gruppi amatoriali. Qualche anno dopo, senza parlarne con nessuno e ovviamente senza nozioni di una vera tecnica vocale, ho sostenuto gli esami di ammissione al conservatorio di Bari per canto lirico, risultando decimo su più di settanta candidati. Fino ad allora non avevo mai pensato di avere una voce adatta al canto e le parole di colei che poi divenne la mia insegnante, Katia Angeloni, furono chiare: Ti abbiamo preso per la musicalità, non per la voce. In effetti come tenore, la mia voce non era particolarmente interessante, la tessitura era limitata e non riuscivo ad ottenere grandi progressi, però notai che mi risultava semplice e agevole il passaggio al registro di falsetto. – racconta l’elegante controtenore Aurelio Schiavoni nell’intervista accordataci, e prosegue –  Allora chiesi alla mia insegnante, mezzosoprano bulgaro verdiano e donna di particolare intelligenza musicale, di ascoltarmi in questa versione e la cosa a lei piacque, anzi la trovò addirittura stimolante. Così cominciai il mio percorso, tutto in salita, per imparare a cantare nel registro di controtenore. Ovviamente per studiare  e approfondire l’aspetto meramente tecnico della voce mi rivolsi ad uno specialista del settore, Michael Aspinall, che è stato ed è tuttora per me come un faro illuminante. Contemporaneamente continuavo a studiare pianoforte e a frequentare l’università».


Aurelio Schiavoni, artista del canto barocco e raffinato interprete in opere e oratori, ha partecipato a importanti esecuzioni, quali l’ Incoronazione di Poppea con il Concerto Italiano di Rinaldo Alessandrini, con il quale ha cantato al Carnegie Hall di New York, l’Orlando Furioso di Vivaldi al Teatro del Giglio di Lucca, il Caino di Scarlatti con il quale ha girato in vari teatri d’Europa, tra cui il prestigioso Theater an der Wien. Conserva però la modestia di quando, ragazzo, ha lasciato la Puglia, sua terra di origine, per seguire gli studi in diverse città d’Italia, tra cui Vicenza, dove ha studiato Canto Rinascimentale e Barocco con Gloria Banditelli, e Napoli, città nella quale ha conseguito il Master di secondo livello in Musica Antica sotto la guida di Antonio Florio. Con Florio e la sua Cappella Neapolitana  si è esibito in varie produzioni, tra le quali le Passioni Barocche Napoletane di Gaetano Veneziano, la Giuditta e l’Agar e Ismaele di Scarlatti, quest’ultimo eseguito in streaming durante la pandemia.
Sabato 20 nella Napoli del Maggio dei Monumenti è atteso il suo concerto in duo con Marco Palumbo in una delle più belle chiese della città, la Basilica di San  Giorgio Maggiore in via Duomo.


«Sono venuto a Napoli qualche anno fa perché mi ero un po’ stancato della vita al Nord e ho cercato un’altra possibilità nella mia formazione che mi ha permesso di venire in contatto con la città di Napoli con la sua cultura e la sua storia. É una città che non ha uguali sul piano della bellezza».


Interrogato sul futuro dell’opera il Maestro sembra essere un po’ pessimista:


«L’opera dagli anni ’50 in poi è stata particolarmente vessata dall’ignoranza (intesa proprio come non conoscenza della propria disciplina) dei cantanti, e adesso ci si mettono anche registi e direttori, gli uni che arrivano troppo giovani a fare cose molto complesse oppure sono vecchie glorie che risentono della pesantezza del proprio periodo storico, gli altri che hanno il delirio di onnipotenza, per cui trasfigurano i libretti o non li leggono, o forse non li sanno leggere, soprattutto se parliamo della musica antica, scritta in un linguaggio aulico non facilmente comprensibile».


Pochi sconti nelle parole del maestro tarantino, che non ama gli eccessi cui ci hanno abituato registi e scenografi in campo operistico negli ultimi anni:


«Secondo me, l’opera può avere un futuro se viene considerata per quello che è, cioè uno spettacolo inteso come opera d’arte e non come un calderone in cui mettere tutto ciò che si vuole fare. Nessuno si sognerebbe mai di visitare una galleria d’arte e ridipingere un quadro perché quel tal colore o quella tonalità del quadro non piace. Chissà perché nella musica lo spartito è invece così soggetto agli individualismi. Può esserci un futuro dell’opera se togliamo tutti i rimaneggiamenti, i tagli o le ambientazioni astruse che non hanno  motivo di esistere, oltre ad una certa dimensione sessuale che sta venendo fuori negli ultimi anni, dove tutto ha un doppio senso, e se nelle parole non c’è lo si crea apposta. In realtà bisognerebbe andare un po’ più a fondo: come si va a vedere il David di Michelangelo per la bellezza e la storia che esso rappresenta, così bisognerebbe andare a vedere l’opera  per la sua bellezza e non per la sua regia o magari solo per ammirare un certo cantante. Non sarebbe inoltre male se si vedessero più spesso nelle programmazioni dei teatri o delle sale anche titoli meno conosciuti, perché di Puccini e di Verdi siamo fin troppo pieni».

Dalle sue risposte sull’importanza dell’ esecuzione storicamente informata vengono le riflessioni più interessanti, che confermano la sua cultura musicale e il suo ineffabile gusto per la perfezione stilistica.

«L’esecuzione storicamente informata ha sempre avuto come  scopo quello di ripristinare le modalità esecutive dei periodi storici del passato. Questa è una cosa che in realtà andrebbe fatta per ogni periodo storico, ma purtroppo viene riservata, ma sarebbe meglio dire relegata, soltanto al repertorio barocco. Questo, secondo me, per distinguerlo da tutto quello che è considerato il grande repertorio, che ha sempre risentito della visione fintamente romantica del trasporto e della comunicazione emotiva, che si traduce erroneamente con libertà di espressione da porre in opposizione alla rigidità delle strutture barocche. A ben vedere anche i compositori romantici come Schumann o Brahms avevano un rigore stilistico nella loro scrittura. Da Mozart in poi si è sempre un po’ travisata questa concezione, per cui la prassi storicamente informata nasce solo appositamente ed esclusivamente per il repertorio di nicchia, ossia il  barocco, tutt’oggi, ahimé, ancora considerato come una musica estremamente strutturata e rigida».


Schiavoni smonta così, a ragione, un fastidioso pregiudizio, fin troppo diffuso qualche decennio fa, ma non ancora del tutto sradicato:


« In realtà il barocco  è l’esatto opposto della rigidità: ci sono stili e stilemi sicuramente, come nella musica di ogni periodo storico, ma la libertà interpretativa era molto più ampia. Basti pensare ad esempio che non esisteva un temperamento unico, ma addirittura ogni città poteva adottarne uno proprio; oppure, ancora, i riferimenti agogici sullo spartito erano molto limitati perché questi potevano e dovevano evincersi dalla scrittura stessa. Questo ci dà l’idea di quanto la musica barocca fosse variegata. Compositori come Verdi, Puccini, Wagner, Brahms, Bizet o Saint-Saens invece, scrivono ogni segno, perché alla loro epoca l’agogica era stata codificata con segni ben precisi e inequivocabili».

Ma  è storicamente informato anche il pubblico contemporaneo?

«Appunto. C’è da dire che se da una parte la prassi storicamente informata avrebbe il compito ripristinare certe modalità di esecuzione rendendole il più fedeli possibile alle idee estetiche del compositore o della propria epoca, dall’altra sono anche cambiati l’orecchio e la cultura degli ascoltatori e di conseguenza certi adattamenti sono obbligatori. Oggi, però, nonostante tutte le informazioni che si possiedono e la possibilità di acquisirle grazie alle nuove tecnologie, continuiamo ad eseguire le sinfonie di Beethoven o le opere di Rossini con organici ampi e sovraffollati come se fossero quelli di Mahler, ma se si guarda a certi libri paga o a certi organici scritti, si vede bene che le orchestre dell’epoca potevano anche constare di pochi elementi».

Anche riguardo allo studio dello strumento gli spunti offerti dal Maestro sono assolutamente stimolanti:

«Si dovrebbe arrivare a studiare la prassi esecutiva storicamente informata dopo una formazione di carattere più generale: studiare prima la tecnica di uno strumento moderno e approdare dopo alla prassi dello strumento antico, perché questo è più complicato e meno reattivo rispetto a quello attuale: uno Steinway gran coda è sicuramente più facile da suonare rispetto ad un fortepiano ottocentesco»

Viene dunque automatica la riflessione sulla situazione attuale degli studi di carattere musicale in Italia:

«La situazione  dei conservatori in Italia è un po’ particolare: da quando ci si è voluti uniformare al sistema europeo del 3 + 2 si è perso qualcosa. Molto nella qualità e molto nelle possibilità di studio. Sono state inserite molte materie teoriche, che certamente sono utili alla conoscenza, ma dal punto di vista pratico occorre stare sullo strumento per imparare a suonarlo bene. Oggi le lezioni teoriche superano in quantità quelle pratiche, ma il conservatorio dovrebbe essere una scuola di avviamento alla professione e non un corso di musicologia».

Infine i dubbi rispetto alla considerazione con la quale viene intesa la professione del musicista:

«Nonostante siano passati circa venti anni dalla riforma dell’ordinamento, la musica viene vista sempre come un qualcosa in più rispetto ad un percorso che dovrebbe portare ad un lavoro “serio”. È necessario cambiare questa mentalità».

Dai pensieri mirabilmente espressi, emerge l’immagine di un artista e intellettuale capace di affermare con decisione e, diremmo, con fermezza e orgoglio le proprie convinzioni, conservando eleganza e garbo, prerogative, d’altra parte, delle sue pregevoli interpretazioni.

Angela Caputo

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