Malacrescita – al Teatro Bolivar la moderna Medea di Mimmo Borrelli

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Sul palco del Teatro Bolivar domenica 21 Gennaio Mimmo Borrelli, tra i più importanti drammaturghi che hanno animato la scena teatrale del nostro secolo, porterà in scena Malacrescita, tratto dal suo spettacolo «La Madre: i figli so’ piezze ‘i sfaccimme».
La pièce è una moderna quanto disumana tragedia che si svolge ai nostri giorni, nella quale la protagonista, Maria Sibilla Ascione si fa aguzzina dei propri figli, generati dal suo perduto amore per un capo clan camorrista, amore che porterà alla inesorabile distruzione di tutta la famiglia di Maria Sibilla.

Il dramma, in cui si possono rintracciare evidenti riferimenti ai miti dell’antica Grecia quali la storia di Medea e Giasone, si svolge nella Cuma dei nostri giorni, terra nella quale la protagonista si rifugia dopo aver ucciso il proprio fratello e causato la morte di crepacuore del proprio padre, reietta e perseguitata da tutti.

Trasposta la storia ai nostri tempi,  le terre che ospitarono il mito della veggente accolgono colei che scappa dalla violenza che subiscono altre terre, quelle campagne della Campania infelix possedute dal padre di Maria Sibilla, dove si consuma lo scempio di consapevoli occultamenti, sofisticazioni e tossicità derivanti dai traffici illegali, da cui provengono inesorabili cancrene e danni permanenti alla vita, un po’ come quelli che la stessa protagonista, nata in una famiglia legata ai clan, è costretta a vivere sin da bambina.
La vicenda è narrata però dai figli di lei, deformi sopravvissuti alla tragedia che sin dall’inizio permea tutta la vicenda.
«Nel testo originale – racconta Mimmo Borrelli – è la madre sopravvissuta a raccontare ormai esule, barbona e sola le sue insane gesta ai propri gatti, gli unici figli che le sono rimasti, di cui si circonda per farsi compagnia. Qui, invece, capovolgiamo il punto di vista, immaginando che tutti i protagonisti di questa storia siano ormai defunti e gli unici sopravvissuti agonisti giullari, diseredati, miserabili, siano i due figli, i due scemi che, dementi, rivivono i fatti tra versi, ricordi, rievocando le pulsioni, gli umori, i suoni, le urla, i mormorii della loro aguzzina … vestendo ed espiando attraverso i suoi lerci ed ammuffiti abiti gli intenti e i moniti di colei che li ha lasciati al mondo, ma abbandonati, come dei rifiuti, messi da parte, in disparte, come le discariche ricolme di vegetazione innaffiata dal percolato, rinchiusi tra le pareti di un utero irrorato di solitudine, dove l’unico gioco rimane e consiste nel rimbalzarsi, tra gli spasmi della loro degenerata fantasia, tra le folli trame insanguinate di questa tragedia, sul precipizio di un improvvisato altare tombale di bottiglie eretto in nome della loro mamma, ’u cunto stesso … la placenta, l’origine della loro malacrescita».

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