Turandot di G.Puccini – Scheda

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Turandot
Musica di Giacomo Puccini (1858-1924) (incompiuta)
libretto di Giuseppe Adami e Renato Simoni, dalla fiaba teatrale omonima di Carlo Gozzi
Dramma lirico in tre atti e cinque quadri
Prima esecuzioneMilano, Teatro alla Scala, 26 aprile 1926 (postuma)

L’opera della crudele principessa di Pechino, dei suoi enigmi e dell’eroico principe Calaf è l’ultima e incompiuta composizione di Giacomo Puccini, grazie ad essa il mito di Turandot è giunto vivido e pregno di suoni e colori fino a noi. Crudele, ma che è animata dalla volontà di vendicare il femminicidio di un’antenata, perpetrato da un principe che,  un po’ di nazionalismo, ahimè,  non guasta mai, è uno straniero.
Il libretto di Giuseppe Adami e Renato Simoni, dalla tormentata gestazione, si ispira alla omonima favola teatrale settecentesca di Carlo Gozzi , musicata nell’800  da Antonio Bazzini, per qualche anno , maestro di Puccini.
Già nel 1802 Friedrich Schiller aveva  lavorato su un adattamento in lingua tedesca della Turandot di Gozzi,  collaborando, pare, con Goethe ad una messa in scena per il teatro di Weimar .
Lungo tutto l’800 si accumulano numerose versioni ad opera di molti autori e, forse, proprio a causa di ciò, il nucleo dell’opera diviene, per contrasto, sempre più didascalico, allo scopo di preservarne la intelligibilità.
«Nessuno è solo sulla strada della creazione» (C.Lèvi-Strauss) così che i materiali accumulati diventano stimoli di reinvenzione ed elementi di sedimentazione.
Anche Ferruccio Busoni sarà affascinato, nel ‘900, dalla gelida principessa d’oriente, ma egli, guardando più al romanticismo tedesco,  si avvarrà del testo di Schiller per la “sua” Turandot .
Non è intenzione addentrarsi in accademiche considerazioni circa l’attribuzione del capolavoro pucciniano al melodramma tardoromantico piuttosto che al nuovo teatro musicale del XX secolo, tuttavia qualche riga per provare a collocare storico-stilisticamente l’opera, si può spenderla.
In passato chi scrive si è avvalso, per descrivere l’evoluzione del linguaggio del melodramma tra 800 e 900, della metafora immaginifica di  un ponte sospeso su due pilastri a T Traviata—-Turandot , gettato a scavalcare il romanticismo europeo in una sola campata.
Scavalcare, sorvolare, se più vi aggrada il termine, ma con ancoraggi autentici nei  due nobilissimi  e solidi estremi; il fiume  vorticoso del romanticismo scorreva recando verso il mare del nuovo secolo miti ed epopee di identità nazionali, aneliti di libertà, utopie di società ideali, mentre  la cultura italiana, si affacciava, aristocratica e distaccata.
Nel punto centrale, più vicino al fluire della realtà, la letteratura musicale ci offre Bohème , uno sguardo quasi ravvicinato  ad un improbabile mondo, popolato da artisti cui compete l’onere di sopravvivere agli stenti, per cantare, aulicamente, la morte di Mimì , umile fioraia, immolatasi per amore e consumata dall’immancabile tisi.
Il decadentismo pucciniano non è quindi il traguardo di un percorso proveniente dal tardo romanticismo, piuttosto un distinguo elitario dalla corrente verista che andava esprimendosi con Mascagni e Leoncavallo in musica e Verga e Capuana in letteratura.
I frequenti contatti con l’estremo oriente dell’inizio del XX secolo costituivano una ghiotta occasione culturale per ambientazioni esotiche stereotipate e superficialmente addobbate, che si collocassero ad oceaniche distanze “di sicurezza”  dai fermenti sociali e politici che scuotevano l’Europa: i movimenti anarchici, la nascita dei partiti socialisti, le rivendicazioni operaie e contadine organizzate; fenomeni , che trovavano ospitalità nell’opera verista, piccolo borghese ed incline al pietismo ed al paternalismo.
Dalhaus , in “ Musica dell’ottocento” si esprime in termini severi nei confronti delle “cineserie musicali”: «La tendenza al color locale, all’esotico […] è però anche una via d’uscita da un dilemma […] mettere in pericolo l’effetto teatrale con uno stile avanzato, oppure, viceversa, sacrificare la modernità dello stile all’effetto teatrale. […] si cercava scampo da una modernità che […[presentava problemi estetici, che non ci si sentiva un grado di affrontare».
E pensare che Puccini si accingeva a comporre Turandot mentre l’Italia si immergeva nel nefasto ventennio fascista!
Ma, tornando ai contenuti, non può non venire in mente una certa somiglianza tra la vicenda di Calaf e quella di un grande, meno fortunato, e più celebre, enigmista: Edipo.
Edipo, risolve gli enigmi,  e si incammina verso la tragedia incestuosa, al contrario Calaf , sciolto il mistero di tre quesiti, pretende  per sé un ruolo dominante, sarà egli a custodire il mistero del quesito che porrà a Turandot  «ma il mio mistero è chiuso in me, il nome mio nessun saprà […]all’alba vincerò!»
È stimolante interrogarsi sul significato del rilancio di sfida, apparentemente del tutto inutile: perché un principe esule, che ha, grazie all’intelligenza, riconquistato un impero ed una donna, dovrebbe rimettere tutto immediatamente in gioco, avendo in palio le medesime recenti conquiste già nel carniere?
Forse vuole sovvertire una condizione che lo vede vittorioso ma pur sempre sotto esame? Forse.
Ma, ancora, perché un astuto enigmista dovrebbe proporre, in cambio della sua stessa vita, un quesito tanto banale, come il disvelamento del proprio nome?
Il nome, come appartenenza alla famiglia, elemento che si tramanda alla discendenza, imposto dal padre, e quindi simbolo di fecondità virile, di potenza generatrice del maschio.
Gli enigmi di Turandot assumono valenza di torneo sessuale, il cui palio è l’amplesso, ma in cui la  sconfitta, ovvero il non appagamento della principessa,  è punita con l’evirazione, o la sua immagine sociale: l’irrisione per il fallimento.
Svelati i quesiti, Calaf si sente padrone dello strumento del potere, e poco importa  che un’ancella  innamorata abbia dovuto sacrificare la propria giovane vita perchè il segreto non fosse rivelato.
Puccini addirittura progetta una scena di efferato sadismo, di tortura, in cui Liù risulta condannata in partenza dalla sua condizione sociale, il cui riscatto pare indissolubilmente legato all’estremo sacrificio.
Una donna che, in procinto di togliersi la vita, scaglia un anatema: «l’amerai anche tu!»,   verso colei che è «cinta di gelo», che vuole accomunarla in una schiavitù che non discrimina tra ceti: l’amore.
È l’unico passaggio riconducibile al romanticismo, troppo breve per essere stilisticamente caratterizzante, ma straordinariamente potente drammaturgicamente, nonché  emblematico del cinismo dei due  protagonisti.
Un suicidio che non può non  rimandare a quello della serva del Maestro, a Torre del Lago,  Doria Manfredi, ingiustamente accusata dalla moglie di Puccini di intrattenere una relazione adulterina con il compositore; Puccini concede a Calaf una rapida rimozione del senso di colpa, e , probabilmente, l’autore stesso, inconsciamente, se  ne giova.
In molte culture si ritrova una storia cupa, e ammonitrice, di giovani donne che finiscono in disgrazia, ripudiate dai genitori ed emarginate, esiliate, dalla società a causa del rifiuto di convolare a nozze, che sconvolge le regole della continuità dinastica, e compromette la conservazione della sovranità.
Dal mito amazzonico di Cashinawa , decapitata dalla madre, che  sopravvive nella sola testa, si autotrasforma in luna; a quello greco di Atalanta, ad altri ancora del mondo ebraico, costellato di condanne per coloro le quali rifiutassero di prendere marito e di essere possibili madri del Messia .
Atalanta , come Turandot , introduce l’elemento di sfida: sposerà l’uomo capace di sconfiggerla nella corsa; ma un arbitro parziale, Afrodite, interverrà a  condannarla alla sconfitta, affascinata da tre mele d’oro, in possesso di un fortunato sfidante.
Turandot , viceversa, incarna un residuo di potere matriarcale ormai al capolinea, (è, per altro, anch’esso un elemento presente nelle mitologie di molte culture) e  Calaf celebra il trionfo del patriarcato : “All’alba vincerò!” , una lettura ontologica che pure, a mio avviso, merita una qualche attenzione.
Edipo rimuove , Calaf vuole superare ed imporre un ruolo dominante
Ma è un’altra la vittoria che Puccini insegue, quella nei confronti della malattia che lo sta stremando, e che non gli  concederà di completare l’opera, la quale  sarà ultimata da Franco Alfano , il quale si incaricherà di completare il terzo atto.
Claudio Sartori , nella sua biografia pucciniana, azzarda un’ipotesi estrema, ardita:
“Puccini non avrebbe potuto acconsentire al proprio puccinismo, a rifare se stesso. Preferì morire, abdicando.
L’opera, dunque, non rimase incompiuta per mala sorte: non poté essere finita perché la programmata conclusione trionfale ripugnava alla mente stessa del compositore, fino al punto che, forse ironicamente, in una lettera al librettista  Simoni, Puccini era arrivato a proporre uno sbrigativo lieto fine: «Il nome? non lo so, lapidario – Gran frase d’amore e con bacio moderno e, tutti presi, si mettono la lingua in bocca. Ciao!».

Ma ancora Giampaolo Rugarli, che ha associato una donna di Puccini a ciascuna eroina protagonista dei suoi melodrammi, ci suggerisce che Turandot sia «la divina […] ignorante, perfida e cattiva Elvira».
Quanto all’epilogo dell’opera, va altresì osservato, che in Gozzi c’è Adelma , schiava della principessa che soffre per il rimorso di aver rivelato l’identità di Calaf di cui pure è innamorata, ma viene perdonata, in Puccini è ribaltato il piano di lettura, totalmente; quella di Gozzi è pur sempre una fiaba, ma il toscano non è in grado di calarsi in un mondo fantastico, Liù si suicida in maniera cruenta e a quel punto il lieto fine non può saltar fuori dal nulla: Puccini si è cacciato in un percorso teatrale quasi senza uscita!
 Egli non sa  o non vuole usare gli schemi drammaturgici del passato, ma non trova il coraggio di rompere del tutto per tuffarsi nella modernità.
Nella fiaba persiana, l’anima  della schiava della principessa trasmigra in Turandot , così, fiabescamente  si risolve il problema di conciliare un suicidio con un banchetto nuziale, al lucchese sembra troppo artificioso e, oltre tutto, concede alla schiava di giganteggiare al confronto di Calaf.
La duplicità di Liù, la metempsicosi, inoltre, sconcerta Puccini , che forse nemmeno conosce la versione originale del racconto se non da fonte riferita.
Ma, più semplicemente, si può ipotizzare che il Maestro volesse spingere continuamente oltre, più in alto e più avanti, la sua meta compositiva, per fare di essa una ragione di vita, di lotta , di sopravvivenza. E ottene la conferma della propria immortalità, per altro, già conquistata con i capolavori precedenti.

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