Lettera aperta al maestro Marco Bellocchio

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Gentilissimo dott. Marco Bellocchio non ci conosciamo se non attraverso i suoi film per i quali è meritatamente diventato famoso.
Non è passato molto tempo da che ho visto la sua ultima opera “Marx può aspettare”. Toccante ed empatico non è alcun personaggio della sua famiglia; neanche lei, a mio avviso, ha voluto tentare di manifestare coraggio nel raccontare il suo senso di colpa, per non avere capito pienamente il tormento esistenziale (il dolore di vivere) del suo gemello Camillo, morto suicida.
Toccanti ed empatici sono solo gli sguardi di suo fratello, la sua figura bella ed elegante che cogliamo nelle fotografie. È bello ed esprime la sua richiesta, forse non resa con le parole, di affetto, di gioia di vivere, di quella dolcezza che né lei, né i suoi fratelli sembrate apparentemente capaci di comunicargli.
Mi siete apparsi del tutto inespressivi se non per una leggera ironia che mi è sembrata di cogliere negli sguardi quando descrivete la vostra strana famiglia.Non ho colto in voi quei sentimenti che ci si aspettano in un’età in cui il pathos generato dall’emotività giovanile, cede il passo ad una più pacata e riflessiva consapevolezza del vissuto.
Al contrario vi si direbbe compiaciuti nell’esibire le vostre prestigiose carriere: tre fratelli importanti e Camillo un diverso, solo un geometra preconfezionato dalla volontà delle famiglie.
Vi è anche sfuggito il peso del suo sacrificio quando ha accettato di seguire, nelle sue cure e nei suoi spazi, vostro fratello maggiore affetto da disturbi dell’area socio affettiva.
Non siete stati capaci di tributargli il dovuto ed esplicito riconoscimento insieme a madri, sorelle e zie.
Vi è sembrato normale circoscriverlo perché non rientrava negli schemi della vostra “normalità”.
Camillo non si è ribellato forse perché arrivava dove voi con il vostro vivere conformista non arrivavate; avreste dovuto affrontare gli impervi sentieri di un esistere fuori da regole consolidate e confermate dal provincialismo perbenista di Piacenza.
Parlo così perché la famiglia di mia madre appunto di Piacenza, era appiattita in e da quel medesimo conformismo, in cui la malattia è equivalente a vergogna da nascondere al mondo, quasi fosse una macchia su un quadro familiare perfetto che non può essere svalutato da figure “fuori dallo schema”.
Ancora di più se decidono di suicidarsi, come Camillo e i molti Camilli.
So di cosa parlo, citando tali incidenti purtroppo per analoghi percorsi familiari seppelliti dall’identico conformismo: il soggetto non si è adeguato, non lo ha voluto fare malgrado le opportunità.
È morto e basta; era un malato, un perdente adatto solo a mansioni di supporto a chi era come lui.
Il mondo scappa, ha paura, preferisce prendere altre strade più certe e sicure, meno impegnative e non si coglie quanto basti per ottenere il miracolo.
Ricordiamo i tanti Camilli, quelli che ancora oggi ci sono, un sorriso ed un ascolto, senza usarli perché loro sono i primi ad offrirsi per sentirsi amati ed amare.
Ed ora le chiedo di rispondere alla mia forse banale domanda: a nessuno di voi è venuto in mente di rivolgervi alla donna che per ben tre anni è stata accanto a Camillo e che al funerale si è messa accanto a lei, suo gemello ed idolo a cui con una lettera suo fratello stesso le chiedeva aiuto.
Lei sarebbe dovuto  essere contento che tale donna si avvicinasse  a lei per chiedere la cosa più semplice a cui si può pensare, senza le decodifiche di illuminati psichiatri: «Chi era mio fratello Camillo?».
Avrebbe avuto l’occasione di manifestare sentimenti ed affetti e sarebbe sceso su quel piano umano che Camillo con la sua lettera le chiedeva di condividere.
Oggi avrebbe maggior il diritto di parlare di lui, altrimenti lasci stare e nel suo film avrebbe concluso che per amare una donna Camillo aveva bisogno di voi.
Non esiste nulla che non possa essere cambiato per  diventare “normali” nello scorrere della vita quando esiste l’empatia del dialogo.

Cordialmente
Donatella Cutillo

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