Puppendämmerung (il crepuscolo delle bambole)

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Se cadere imprigionare amo. Suggestioni dal respiro di una crisalide, scritto e diretto da Andrea Cramarossa, teatro Elicantropo Napoli, 18 novembre 2017.
Con Silvia Cuccovillo, Federico Gobbi, Domenico Piscopo, produzione Teatro delle bambole. Musiche di Vincenzo Ardito, costumi di Silvia Cramarossa, meccaniche di palcoscenico di Francesco Martone.
Il testo messo in scena da Andrea Cramarossa trae spunto da un fatto di cronaca, accennato in un passaggio della pièce: qualche anno fa, un adolescente fu sodomizzato da alcuni suoi compagni con un tubo d’aria compressa, che gli causarono gravi danni all’intestino; i genitori dei discoli, per tutta risposta, non lesinarono minacce a ragazzo e famiglia, dopo che il giovane si permise di denunciare i loro gentili pargoli. L’opera di Cramarossa, tuttavia, sembra utilizzare il fatto solo come un vettore per insinuarsi in un tessuto familiare e abitarlo; ma non quello della vittima (troppo facile), bensì quello del carnefice e dei loro “educatori”. E così ci conduce in un trittico familiare, Madre e due figli: l’asse temporale drammatico si svolge a partire dal ritorno di quest’ultima dopo un abbandono e una sepoltura (sepoltura metaforizzata da sepolcri scenografati e da morti narrate).
L’universo familiare in cui si viene condotti è una mistura di morbosità, gravidanze incestuose, dolorosi ascessi di incomprensione; il tutto scandito da una ritmica scattosa (che allude forse alla dinamica degli insetti). I tre personaggi si scontrano, si uniscono (anche sessualmente), comunicano in dissidio: tutto sembra rinviare ad un’unità familiare smarrita, tragicamente, in cui la “formazione” educativa e affettiva si capovolge in deformazione, polemos senza soluzione, bruttura morale ed estetica (singolare la parte della lettura dei componimenti classici della poesia italiana, dove il rituale dei “compiti per casa” viene ad illustrare la grossolanità genitoriale e la sua ignoranza incapace ad orientare).
Il testo è reso attraverso un lavoro sul corpo degli attori, isolati spesso nel loro movimento ingiustificato e quasi sempre alla ricerca di un corrispettivo sonoro ricavato da un “incontro” o da un rimando col mondo (degli oggetti, pavimento, sfondo sonoro).
La destrutturazione complessiva è il risultato più evidente, in cui l’impeto avanguardistico dissolve il testo e la trama in una sorta di prova da teatro-danza o da musical. Ma cosa resta del teatro? Poco. Se il teatro è il “luogo della verità per eccellenza”, come sostiene in un’intervista Cramarossa, c’è da domandarsi in che luogo della scena è posta. Nella sensazione, dunque nell’inesprimibile? Nella parola destrutturata, ripiegata nel flusso dei significanti? Nelle pieghe dei silenzi prosodici o narrativi? Restiamo perplessi, sia dell’attribuzione di un simile privilegio al teatro (che per quanto ci riguarda va nella direzione opposta alla verità), sia del fatto che un chiaro tentativo avanguardistico si capovolga in una simile recupero “retroguardistico”. E la perplessità ci viene soprattutto dal risultato cui abbiamo assistito.
Il testo pare un collage più che un ordito: il contenuto narrativo sfugge per la gran parte, se non in rari momenti in cui il senso ricompare brevemente dopo leziose catene di parole “belle”. Sembra di ascoltare un adolescente che si diverte a parlare complicato, piuttosto che il canto di un autore; con il peccatuccio, non di poco conto, di dover far ritorno di tanto in tanto alla realtà (come se ogni tanto ci si ricordasse  che c’è pur uno spettatore che guarda: ma non è meglio dimenticarlo a questo punto?), con piccole indicazioni, che sanno però di didascalie nell’avanguardia.
L’uso del dialetto è spinto fino al mero flusso di fonemi (salvo per chi conosce il barese e il milanese), cui fa da contraltare lo sfondo di urla, di toni in forma di grido, di musiche e suoni che talvolta si mescolano nell’assordante. L’effetto è quello di un pastiche informe, che come tale poco restituisce del dolore o delle tanto decantate sensazioni (l’inesprimibile ha un costo elevato!).
Le prove attoriali sono discrete ma la loro potenzialità sembra compromessa, anche questa, dalla regia: a dispetto della verità, la carica espressiva è esagerata, quasi infantile (tutt’altro che “puramente” infantile).
La madre (Silvia Cuccovillo) sembra impersonare più la strega dell’ovest che una genitrice diabolica e, paradossalmente, il suo talento si mostra con convinzione proprio nelle brevi fuoriuscite dal personaggio, piuttosto che nelle suite di barese urlato.
I movimenti sono scattosi ma assomigliano più a dei tic che a delle rapsodie entomologiche.
I suoni dei movimenti che, per dirsi, cercano il pavimento, rendono quei movimenti caricaturali e posticci (né verità né finzione).
La scenografia e la musica, invece, sono essenziali ma efficacemente caratterizzanti i temi che sembra voler trasmettere lo spettacolo: precarietà, regressività, dissidio.
Ci resta, insomma, un grande punto interrogativo: è possibile un’avanguardia naif? A noi, non pare. Ma la verità, anche per noi, non è di casa nelle parole.

Andrea Bocchetti

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