Il Britannicus, il capolavoro di Jean Racine “riconsacrato” da Michele Suozzo

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Valeva sicuramente la pena di recarsi a Roma per assistere al Britannicus di Jean Racine, andato in scena lo scorso 29 aprile al Teatro Palladium, per la regia di Michele Suozzo.
C’è anzi da chiedersi come mai questo austero capolavoro sia stato praticamente ignorato dal teatro italiano. Sarà perché, come suggerisce il programma di sala, nelle opere di Racine manca quell’aria di conflitto sociale permanente che tanto piaceva (e piace) alla nostra borghesia illuminata?
In effetti, il segno distintivo del teatro di Racine è la nitidezza della struttura drammaturgica; l’azione scenica è minima, la trama è al servizio delle psicologie individuali e gli eventi storici in cui queste si inseriscono non sono che un fondale tragico  su cui meglio risaltano i conflitti interiori e gli scontri tra le diverse personalità in scena.
Le passioni, più che vissute, vengono raccontate attraverso una lingua ricercata, ma allo stesso tempo tersa e musicale, in cui l’esprit de finesse del cuore è fermamente sorretto dall’esprit géométrique della ragione, ed entrambi sono espressi in distici alessandrini a rima baciata (l’alessandrino è il verso solenne, “eroico” dei grandi tragediografi d’oltralpe).
Proprio per questa specificità linguistico-prosodica, Racine è considerato tra gli autori più intraducibili. Bene ha fatto, quindi, il regista Michele Suozzo a non rinunciare al testo originale e a far recitare i suoi attori in francese; una scelta audace ma alla fine vincente. La recita in lingua ha preservato l’armonia del verso che, come un metronomo, scandiva con un meccanismo preciso e inesorabile il procedere dei movimenti di scena, riuscendo così, paradossalmente, a rendere più chiaro il fluire della tragedia, a penetrarne le sfumature psicologiche e drammatiche.
Il francese seicentesco, peraltro mirabilmente recitato dagli attori, non accentuava la distanza del mondo raccontato da Racine dal nostro, anzi, al contrario, ci faceva entrare in quel mondo con l’idea (o l’illusione) che anche un tempo come il nostro può essere abitato dal sublime, che le passioni, sebbene appaiano mutevoli, sono nel fondo sempre uguali a se stesse, scolpite nel marmo della natura umana.
Questa cifra stilistica era espressa sul palco con una grazia nobile, maestosa, quasi ieratica, all’interno dell’unica scena, disegnata da Dario Dato, formata da tre pareti asimmetricamente disposte, che delimitavano uno slargo alla confluenza tra i corridoi del palazzo imperiale. In alto, una imponente testa di Medusa gettava sulla scena un’aura di sinistro sortilegio; in cima a una rampa di scale, una dama in abiti seicenteschi suonava un organo: il tutto per ricordarci che stavamo assistendo ad una messinscena del XXI secolo di una tragedia francese scritta nel XVII secolo sulla Roma del I secolo.
Britannicus rimane uno dei grandi drammi sugli intrighi politici, e sulla nevrosi del potere. È soprattutto il ritratto di Agrippina, qui interpretata dalla bravissima Fulvia de Thierry, un grande personaggio che si dibatte tra la determinazione ad affermare la propria egemonia e la paura paranoica di esserne privata.
Agrippina è convinta che suo figlio Nerone, che lei ha insediato come imperatore romano al posto del fratellastro Britannico (l’erede legittimo usurpato), l’abbia esclusa dalle sue strategie di potere.
E ora che lui ha rapito Giunia, amata da Britannico, la madre ha la prova, o almeno così crede, che Nerone stia ostacolando i suoi tentativi di mantenere il controllo su tutto: di qui i suoi sentimenti di paura ed ira.
Ma c’è qualcosa di profondamente ambiguo nella sua collera: è una donna di potere, ma è anche una madre che frena a stento la passione (incestuosa?) per il figlio; non si trattiene dal dare un lungo bacio sulle labbra di Nerone, raggomitolato ai suoi piedi come un bimbo.
Guido Quaglione disegna con grande acume la nevrosi di un Nerone che cerca di sfuggire al dominio della madre, e sfrutta appieno le sfumature del suo personaggio, ora tragico, ora passionale, ora ironico.
La conoscenza da parte di Racine dei corridoi del potere emerge anche in due figure fortemente contrastanti: Narciso (Guido Marini), il tutore di Britannico, si dimostra un campione di doppiezza, mentre Luciano Roffi, con Burro, il consigliere di Nerone, ci consegna una figura di uomo probo inorridito dal mostro che ha contribuito a far emergere.
Enrico Lanza ben interpreta il personaggio del titolo come un uomo debole, che vorrebbe guidare i giochi lui stesso, o almeno determinare il proprio destino. Ma si rivela essere solo una pedina, e a nulla gli vale il leale amore della dolce Giuna, interpretata da un’ottima Hannah Fried.
Michele Suozzo con questo Britannicus ha operato la “riconsacrazione” di un testo formidabile, restituendo il prestigio e la considerazione dovuti a un tragediografo ingiustamente trascurato dai teatri italiani. Una messinscena intensa e rigorosa, la sua, di una maestosità stilizzata, anche per merito dei bei costumi d’epoca disegnati da Annalisa di Piero: uno spettacolo straordinariamente raffinato nella sua limpida, severa bellezza.       

Lorenzo Fiorito

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