Cinquanta sfumature del bianco: Aminta di Torquato Tasso

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Le suggestioni del dramma pastorale secondo Antonio Latella, in una versione inedita delle vicende del pastore Aminta e del suo amore per la ninfa Silvia andato in scena Venerdì 16 novembre 2018, al Teatro Nuovo di Napoli.

Un faro che si muove ellitticamente, come un sole, a scandire il tempo, ritmando lo spettacolo in due giorni separati. Pareti scure che chiudono lo spazio scenico senza ulteriorità. Quattro microfoni. Due atti: il primo, un reading, o poco più; il secondo, una parodia di un concerto rock, animato da un’improbabile figura alla Courtney Love e un altrettanto improbabile cantore vestito da Eminem.

Della bellezza dell’opera del Tasso, e del suo contenuto, non vale neppure la pena parlarne: il testo lo si perde, quasi integralmente, dall’inizio alla fine, inghiottito da una recitazione rincorsa tutta d’un fiato, oppure gridata, rimodulata da effetti sonori;  ma anche dall’immobilità quasi permanente degli attori, vincolati ai microfoni (di cui solo uno è “libero”), la cui espressività drammatica, a parte una sparuta gestualità non esattamente nitida (ma perché nel primo atto, ogni tanto, l’attrice di spalle si volta verso il pubblico?), è demandata alla sola voce. Siamo ancora nell’avanguardia? Ahimé della phoné beniana, neppure l’ombra (almeno nel risultato complessivo): ché forse c’era un tentativo in tal senso?

Spettacolo verboso, inutilmente lungo (il cui tempo, a causa dell’assoluta infruibilità, lo approssima al supplizio), lezioso, saccente, che utilizza un testo sublime sottraendolo alla ricezione (immaginate una Commedia urlata a squarciagola e letta perlopiù a velocità supersonica). Gli attori fanno quello che possono e lo fanno egregiamente: ma con un testo e una regia del genere, si può davvero poco.

L’unica cosa che ci viene in mente è che lo spettacolo abbia voluto utilizzare l’opera del Tasso per ragioni unicamente musicali (motivo in più, nel caso, per non considerarne il senso), sbarazzandosi del contenuto, nel tentativo di slanciarsi verso un informe fonetico, il cui contatto sarebbe dovuto cadere nel sonoro: ma anche in questo caso, il risultato appare modesto. L’espressività attoriale non aveva ambizioni musicali (tant’è che si manteneva nel “classico”), gli effetti sonori e le modulazioni amplificanti della voce non eccezionali, per non parlare dello pseudo-concerto nel secondo atto, che intercalava con un improbabile inglese cantato, la partitura del Tasso.

La sperimentazione nel teatro ha prodotto grandi cambiamenti; le avanguardie hanno offerto nuovi orizzonti; ma l’assenza di direzione nella sperimentazione in questione ci ha dato l’impressione più volte di una sorta di derisione che l’autore rivolgeva al pubblico. In quest’ultimo caso, questo spettacolo, sarebbe genialmente sprezzante.

In tutti gli altri, un capitolo del tutto superfluo nel mondo della provocazione estetica, di cui francamente si è venuti a noia da lungo tempo.

Si replica fino a domenica 18 novembre con la regia di Antonio Latella, drammaturgia di Linda Dalisi.

Aminta con Michelangelo Dalisi, Emanuele Turetta, Matilde Vigna, Giuliana Bianca Vigogna. Produzione Stabilemobile in collaborazione con AMAT, Comuni di Macerata ed Esanatoglia, promosso da Mibact e Regione Marche e coordinato da Consorzio Marche Spettacolo. Scenografia Giuseppe Stellato, costumi Graziella Pepe, musiche e suono di Franco Visioli, luci di Simone De Angeli, movimenti luminosi Francesco Manetti.

Andrea Bocchetti

 

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