Nel nome del padre, vite di figli non attrezzati per la vita

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Un’americana e un italiano, ignari in vita l’una dell’altro, nell’arco di durata di una pièce teatrale, abitano uno spazio di relazione. Non sanno, ma hanno in comune un doloroso vissuto di sofferenza mentale, non attrezzati per la vita riscattano le loro vite negate, trovando dignità nel congegno drammaturgico che consentirà loro un percorso di liberazione e, forse, di insperata tenerezza. Teatro Genovesi di Salerno, domenica 10 febbraio, la compagnia La Corte dei Folli di Fossano (CN) ha inaugurato l’11° Festival Nazionale “Teatro XS” Città di Salerno portando in scena la commedia Nel nome del padre di Luigi Lunari. Un testo scomodo, famiglie importanti dal punto storico e sociale, lei è Rosemary terza figlia di Joseph P. Kennedy e Rose Fitzgerald, lui è Aldo figlio di Palmiro Togliatti e Rita Montagnana, due padri che, seppure in modo diverso, non sapranno misurarsi con il disagio psichico di figli fragili. Le storie si dipanano lentamente, identità rivelate non immediatamente ma da subito è forte il senso di smarrimento dei due, lei con una bambola di pezza tra le mani, lui con un fagotto di libri sotto il braccio, arrivano in questo non-luogo e, proprio perché solo l’uno di fronte all’altra, iniziano a conversare in un approccio fintamente colloquiale. La difficoltà relazionale è palpabile. Hanno vissuto lungamente internati in istituti di cura, lei in una lussuosa clinica dopo la lobotomia cui fu sottoposta a 23 anni, nel 1941, per volere del padre, lui dal 1980 fino alla morte nel 2011 ricoverato a Villa Igea a Modena, registrato soltanto con il nome ed una diagnosi di schizofrenia autistica. Figli che si raccontano con iniziale riluttanza. Rosemary aveva un inappagato bisogno di riconoscimento, scriveva disperatamente al padre scusandosi di essere diversa e non all’altezza della famiglia dei Kennedy, il padre però non accettò mai questa figlia, danneggiata cerebralmente dalla nascita, con problemi psicomotori e ritardi nell’apprendimento, vivendo la cosa come un vergogna da nascondere. La ragazza aveva comportamenti disinibiti che potevano compromettere la reputazione della famiglia, così l’autoritario patriarca le fece praticare una lobotomia che ridusse la figlia ad uno stato vegetale e su una sedia a rotelle per il resto della sua lunga esistenza, morirà infatti nel 2005. Aldo, invece, passa la sua infanzia a Mosca e Parigi, appartato tra i suoi libri e scuole particolari per “i figli del partito”, il padre troppo assente, forse suo malgrado, per i tanti impegni politici. A guerra finita e rientro in Italia i genitori si separano, il leader comunista resta a Roma decidendo, nonostante l’ostilità del partito comunista, di vivere un amore militante con una ragazza di ventisette anni più giovane di lui, destinata a diventare la prima donna presidente della Camera dei deputati, Aldo e la madre si trasferiscono a Torino. Sono evidenti i segni del disagio mentale del giovane, che amerà e odierà quel padre rifiutando di portare il suo cognome. Cristina Viglietta e Pinuccio Bellone hanno dato voce e corpo allo smarrimento di queste vite rifiutate, vissute in un cono d’ombra irrimediabile. Stefano Sandroni, regista di leggera ma efficace sobrietà, avvalendosi anche di un sapiente gioco di luci, ha consentito di fare emergere con naturalezza due prove attoriali di indiscutibile valore, riuscendo nel folle miracolo di restituire ai due reduci un finale di partita, catartico e liberatorio, quanto mai toccante. I bagliori di una tenerezza e di un sentimento di abbandono alla fiducia dell’altro, il tutto racchiuso nell’abbraccio finale, restituiscono l’occasione di riscatto mancata in vita. Lo spettacolo non ha accusato mai cedimenti, alternando ai dialoghi serrati le rievocazione dei ricordi familiari, preparando quel terreno dove la rabbia, ed il suo acme, diventano veicolo di liberazione dal grumo paralizzante del dolore, filiale ed esistenziale. Lo scavo profondo dei personaggi andrà di pari passo ad una lenta ma progressiva “svestizione” degli attori che abbandoneranno gli abiti indossati per vestire, in sintonia con il processo liberatorio in atto, nuovi abiti ed essere pronti ad un percorso finalmente scelto. Perché la vita e le aspettative confezionate su misura da altri, fossero pure padri amatissimi e odiatissimi, possono irrimediabilmente schiacciare figli particolarmente fragili che diventano vittime, questa è il drammatica peso che lo spettatore non riesce a scrollarsi da dosso, nonostante l’inatteso e catartico finale. Pieno il gradimento del pubblico presente che ha applaudito con calore e convinzione sia i due interpreti che il regista.

Marisa Paladino

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