Un pioacer serbato ai saggi, o sia la dilettevole professione del critico musicale – Rivoluzioni non solo tecnologiche

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Rivoluzioni non solo tecnologiche

La critica musicale nel Novecento, come già avvenuto nel precedente secolo, registra firme di letterati grande prestigio, stimolati anche dall’affermarsi e il diffondersi di grandi quotidiani che, soprattutto negli anni ’50 e ’60, riservano spazio alla critica musicale, anche se arricchita da elementi di cronaca culturale e mondana.
Un illustre esponente della schiera di intellettuali dedicatisi alla critica è Eugenio Montale, per molti anni recensore dotato di fine spirito letterario dal Teatro alla Scala di Milano.
In una recensione del 9 dicembre 1955, troviamo un’analisi dettagliata e approfondita della vocalità di Maria Callas interprete di Norma di Bellini, ruolo da molti ritenuto vetta della maestria della Divina.
«Nelle vecchie esecuzioni di Norma di cui abbiamo memoria predominava il “clair de lune”, il colore diafano, madreperlaceo: un’intonazione generale che certo non si formò per caso e che attingeva a una lunga tradizione maturata in tempi in cui il teatro lirico non conosceva ancora salse e salsamentari di grido e mirava a quello che era allora considerato il sodo: la perfetta esecuzione vocale»
Si noti il linguaggio ironico, forse radical chic, ma certamente non vacuo, adottato dallo scrittore, in possesso di cultura musicale ragguardevole.
Dopo aver dissertato su analogie, differenze ed evoluzioni stilistiche tra la Sonnambula e Norma e tra questa e I Puritani, il letterato afferma:
«Ebbene, se dicessimo che l’edizione di Norma presentata ieri alla Scala, in una serata di gala che ha visto manifestazioni di entusiasmo, getta un ponte tra i due capolavori e in qualche modo puritaneggia anche il primo glorioso spartito, non andremmo forse molto lontani dal vero, e nello stesso tempo, riconosceremmo quanto ha saputo fare la direzione della Scala per presentare l’opera in una veste rispettosamente insolita»
Dopo aver bilanciato, ponderato pregi e difetti degli atteggiamenti di conservazione e di rinnovamento, Montale trae conclusioni ben nette:
«Venti, trent’anni di sperimentalismo sprovveduto non potrebbero essere seguiti da alcuna restaurazione. Uno stile non si ritrova più una volta che è andato perduto; tanto meno uno stile vocale.
Se vogliamo che il nostro repertorio operistico (il solo in cui il teatro italiano sia stato una grande voce europea) si mantenga comprensibile ed eseguibile, non possiamo permettere che vada perduta la ‘chiave’ che apriva i segreti.
Ciò non implica che la conservazione debba essere considerata come passiva ripetizione di formule stantie»
Sono quelli gli anni in cui alla Scala domina la figura di un immenso direttore concertatore nonché didatta: Antonino Votto.
Di lui Montale scrive, cogliendo l’opportunità di chiosare sul cattivo giusto imperante durante il ventennio fascista:
«Non poca fatica ed amore deve essere costata ad Antonino Votto la concertazione di una partitura che un po’ Verdi giudicava, con qualche ragione, “povera di i strumentazione e armonia”. Una certa accelerazione dei tempi nella sinfonia, un qualche clangore iniziale ci avevano insospettito. Si sa che il primo atto di Norma non è il migliore e che la romanità non portava fortuna nemmeno ai tempi di Bellini»
Compare il riferimento a una delle più grandi figure del melodramma di tutti tempi: parliamo di Maria Callas che, nella circostanza di cui ci dà recensione il Montale, torna ad interpretare il ruolo della sacerdotessa al Teatro alla Scala:
«La signora Meneghini Callas ci ha ridato una Norma più sottile (non però vocalmente) e più tormentosa di quella che ci aveva già fatto ascoltare.
Mai eguale a se stessa, sempre alla ricerca del meglio e del diverso, ora passata in poco tempo, con volo vertiginoso, dalla Butterfly alla Norma, la Callas sembra voler diventare (fosse possibile immaginarne una sulla scena lirica) una Sarah Bernhardt del dramma musicale»
In quella edizione scaligera troviamo interpreti del calibro di Giulietta Simionato in Adalgisa e di un tenore che farà molta strada e di cui Montale scrive:
«Il Pollione di Mario Del Monaco è verosimilmente il migliore che sia mai esistito. Per la prima volta sappiamo come questa arida parte può, anzi deve essere cantata»

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