“Apologia” dramma di un interno borghese entusiasma al Mercadante

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L’esatto equilibrio tra testo, allestimento, regia e interpretazione decreta un meritato successo.
Avviene per “Apologia” in scena al Teatro Mercadante dal 28 gennaio al 2 febbraio 2020, coproduzione CTB e Teatro Stabile di Catania, opera dell’autore britannico Alexei Kaye Campbell del 2009, nella traduzione italiana di Monica Capuani, regia di Andrea Chiodi.

Il testo racchiude uno spaccato borghese dei nostri giorni, dominato dalle incomprensioni affettive e relazionali, dai disaccordi generazionali, dalla contrapposizione delle utopie e degli stili di vita.
Linguaggio rapido, dal registro medio, colloquiale, che trascina lo spettatore a identificarsi con uno dei personaggi sulla scena nel gioco salvifico e metabolizzante del teatro e, suo malgrado a mettersi in discussione.
“Apologia” è una aspra condanna di militanti ex sessantottini, illusi e illudenti di poter annullare le distanze sociali attraverso oratorie preconfezionate e marce di protesta più goliardiche che politiche; quella generazione che cantando ideali di pace ha lasciato in eredità un mondo con lo stesso potere capitalistico, ma fronteggiato da una gioventù imbelle, incapace di tenere vivi gli ideali di giustizia sociale, che ai pugni chiusi prefersice il frenetico agitare i pollici sul touch di uno smartphone. Tra genitori di mezza età e figli si estende una prateria che una mutazione non solo climatica ha trasformato in deserto di comunicazioni e di dialogo imputabile a coloro che tra autocritiche eluse e autoreferenzialità, sono divenuti espressione del sistema capitalistico-consumistico che proclamavno di volere abbattere.
Il racconto scenico è racchiuso in una riunione di famiglia per il compleanno della madre dove emergono le incomprensioni e le mancanze affettive tra la madre e i figli, oltre che la contrapposizione tra donna combattente sovversiva e giovani donne moderne espressione della società contemporanea. Non a caso vi sono citazioni, sia esplicite che non,  di drammi borghesi di epoche precedenti con echi di Ibsen e Cechov.

Lo spettatore è posto dal regista Andrea Chiodi nella posizione di un voyeur così come ormai siamo abituati dai reality. La messa in scena restituisce la quotidianità delle azioni, sottolinea le parole, delinea i caratteri dei personaggi, fa trasparire, da un’apparente semplicità del gioco scenico, le emozioni e il sentire di ognuno.
La scelta di diversi registri anche di dizione rende a pieno l’intero processo spettacolare.

La regia di Andrea Chiodi è indissolubile dall’apparato scenico di Matteo Patrucco che quasi cita  quadri di Hopper, creando nello spettatore la possibilità di intravedere dalla porta o dalla finestra l’interno, quasi a memoria del “il fascino discreto della borghesia” di Luis Buñuel. 
Il dialogo tra dentro e fuori, tra spettatori e attori, è ininterrotto  sino alla fine quando è l’attore a guardare attraverso la finestra il pubblico/mondo attraverso una  parete che scorre verticalmente.
Le azioni e il trascorrere del tempo sono sottolineate dalle luci di Cesare Agoni, a delineare i personaggi concorrono i costumi di Ilaria Ariemme.

La padrona di casa Kristen Miller, affermata storica dell’arte e romanziera, interpretata da Elisabetta Pozzi, restituisce al pubblico una donna persa nella realizzazione di sé stessa, incapace di una relazione affettiva con i figli, giudice severa ancorchè ironica dei comportamenti delle nuore, che le appiono frivole e superficiali o semplicemente colpevoli di essere giovani e sessualmente attive, ma sicuramente ritenute non all’altezza dei figli di lei,  vera ape regina, che si rifugia nella protettiva solidarietà di Hugh, un amico del cuore un omosessuale che non la giudica, che la sorregge e la difende dagli attacchi esterni, creando un nido perfetto.
L’amico interpretato da Alberto Fasoli cerca di bloccare ogni contrasto tra Kristen e la famiglia, inventando malattie e bisogni inesistenti, alla fine dovrà cedere il suo ruolo di ammortizzatore relazionale e lasciare che si realizzi il confronto tra le parti.
I due figli hanno scelto di essere ciò che la madre non avrebbe mai voluto: l’uomo dell’apparato Peter, interpretato da Cristian La Rosa e l’irrealizzato Simon, interpretato da Emiliano Masala.
Entrambi i figli decidono di affrontare la madre evidenziando la sua incapacità di amarli, e di investire il padre della colpa della loro cattiva relazione. Entrambi i figli hanno compreso la loro non presenza nella vita della madre dalla omissione nella sua autobiografia “Memoire” appena pubblicata.
Se Peter affronterà il problema con la madre durante la cena, Simon sceglierà un dialogo privato con lei. Nessuno dei due riceverà le scuse e le risposte attese.

Le nuore, tanto disprezzate da Kristen, le mostreranno invece come l’apparenza non determini  l’interezza di una persona.
Claire, fidanzata di Simon, interpretata da Martina Sammarco, apparentemente la più frivola, svela chi lei in realtà sia nascosta da guscio esterno che la avvolge e che Kristen  non ha mai scalfito. Claire le mostra come in un addio, in un abbraccio, si possa rivelare la realtà emozionale.
Trudi, fidanzata di Peter, interpretata da Francesca Porrini, la ragazza borghese per eccellenza e per giunta credente, è colei che cerca di stabilire un dialogo, di offrirle un ruolo nella comunicazione, e che  ha la capacità di mettere Kristen di fronte alla verità più amara: è una donna incapace di perdonare sé stessa perché autoreferenziale.
Meritatissimo lungo applauso del pubblico ad una pièce organicamente eccellente.

Tonia Barone

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