Chi ha paura delle fiabe? «Festen, il gioco della verità»

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Helge Klingenfeldt, ricco uomo d’affari,  festeggia i sessant’anni nella sua grande casa in campagna. Sulla festa grava il ricordo di Linda, morta suicida poco tempo prima. Non mancano comunque la moglie di Helge  e gli altri tre figli, Michael, Helene e Christian, gemello di Linda. Quando tocca a quest’ultimo prendere la parola e improvvisare un discorso per il padre, una tremenda verità nascosta sarà rivelata.
Questo è il canovaccio su cui si articola lo spettacolo «Festen, il gioco della verità»,   primo adattamento teatrale italiano dell’omonimo film danese, diretto da Thomas Vinterberg, esponente del manifesto Dogma 95.
Lo spettacolo, che sarà a Roma  alla Sala Umberto fino al cinque marzo, è dunque un adattamento teatrale di una sceneggiatura cinematografica,  curato da Lorenzo de Iacovo e Marco Lorenzi. Quest’ultimo  ne cura anche la regia, restituendoci un articolato lavoro corale della compagnia torinese IL Mulino di Amleto.
In scena dinamiche familiari terribili , l’incesto, la violenza nelle relazioni , e i riferimenti a temi comuni sia alle grandi tragedie greche che all’opera shakespeariana, ma anche alle fiabe dei fratelli Grimm, agli archetipi dei miti e del folklore,  sono tantissimi.
Sono dimensioni che creano disagio, orrore e repulsione, ma che ci troveremo ad affrontare insieme agli attori nel momento in cui esploderà la verità. La verità di un copione che proprio all’inizio dello spettacolo siamo chiamati a scegliere e che dunque in qualche modo ci rende fin dall’inizio parte della storia, partecipando ad un gioco ( la scelta del verde e del giallo ) che poi scopriremo sarà il terribile gioco del padre orco.
Una festa dunque che presto si trasforma in una tragedia, ma che diventa ancora festa , nella tensione tra la volontà collettiva di nascondere, rimuovere, dimenticare e l’ esigenza sempre più forte di dire, di urlare la verità,  nel tentativo   di recuperare quell’innocenza che è irrimediabilmente perduta.
E mentre invano uno degli ospiti,  l’animatore della festa , continuerà a dire “ dopo questo piccolo – come potremmo definirlo – intermezzo, possiamo riprendere i nostri posti per proseguire la festa…”, i personaggi resteranno sempre più soli in una dimensione desolata.
Caduto il velo del perbenismo, la famiglia apparirà null’altro che un luogo oscuro e perturbante, come il grande bosco che circonda la casa, come il bosco in cui si perdono Hansel e Gretel nella famosa fiaba che, col suo racconto, apre lo spettacolo, un luogo di connivenza amorale in funzione del tentativo di preservare un’immagine di falsa rispettabilità.
I protagonisti conoscono e sentono l’orrore,  eppure fino alla fine cercano un appiglio, una scusa per non affrontarlo, ingabbiati in uno schema che per quanto perverso è funzionale alle loro esistenze  ( la gabbia della strega dove Hansel e Gretel si lasciano rinchiudere per rimpinzarsi di dolciumi ), impreparati e spaventati dall’abisso che intuiscono dietro quelle sbarre  : perché allontanare il padre significherà strappare le loro radici e iniziare a decidere del proprio destino. Ecco dunque la tensione tra andare e restare, desiderando ma odiando un legame che può diventare abuso e violenza, ma che continua a sedurre e ad esercitare tutto il suo potere.
«I did all my best to smile, ‘Till your singing eyes and fingers Drew me lovinhg to your isle . And you sang: Sail to me…Let me enfold you…Here I am , waiting to holding you…»
Feci del mio meglio per sorridere, finché il canto dei tuoi occhi e delle tue dita mi condusse con amore fino alla tua isola e tu cantasti: Naviga fino a qui…lascia che io ti avvolga, io sono qui…aspetto solo di poterti stringere ) risuonano nel dramma le strofe di Song To The Siren, quasi a ricordare un abbraccio mortale.
E dunque la vicenda  è tutta incentrata su questo gioco di confessione e negazione, rafforzato da una narrazione che sembra alternare momenti di realtà a momenti di sogno, espressione dell’inconscio dei personaggi.  In questo senso diventa interessante la scelta di mescolare teatro e cinema ( gli attori recitano e vengono ripresi ) , rendendoci pubblico sia dello spettacolo sia della proiezione del film della recitazione registrata in presa diretta.
È un’operazione non nuova ma sicuramente interessante,  perché rafforza in  questo caso una connessione con l’origine stessa del testo, che si rifà alla sceneggiatura del film omonimo. Insomma  un teatro che nasce dal cinema e poi viene ri-preso da quello stesso medium al servizio del quale però pone il proprio codice , riconfermando la sua forza e la sua suggestiva e umana bellezza.
Più piani di lettura per un mosaico di relazioni che poco a poco si sgretolando per ricomporsi in un modo assolutamente nuovo, portato in scena dal magnetico Danilo Nigrelli, padre Barbablu’, che toglie e succhia la vita ai suoi stessi figli e dalla brava Irene Ivaldi , la madre, algida e indifferente, una madre che è testimone della violenza ma che non interviene.
Insieme a loro e accanto a loro Yuri D’Agostino, il cerimoniere della festa, Elio D’Alessandro, che interpreta Christian, sofferente e tormentato per le violenze subite. E  ancora  Roberta Lanave, la cameriera, Carolina Leporatti, la nuora incinta,  Barbara Mazzi,la sorella psicologa che è fidanzata con una donna ma non ha il coraggio di confessarlo alla famiglia,  Raffaele Musella, il figlio scapestrato e  Angelo Tronca, il nonno.
Una storia che sembra sempre riproporre un doppio piano di realtà,  tra quello che vorremmo che fosse e quello che invece è,  entrambe valide e in qualche modo entrambe vere perché frutto delle nostre paure ma anche dei nostri desideri. Una storia non a caso costruita sul palcoscenico e contemporaneamente riproposta dall’occhio della cinepresa che rielabora e proietta in diretta, quasi a suggerire che non c’è mai un unico sguardo, ma c’è sempre una scelta che può salvarci o renderci colpevoli.

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