La Medea di Mimmo Borrelli si chiama Maria Sibilla Ascione. Al momento della rappresentazione è morta, cosi come il resto della sua famiglia, ma le sono sopravvissuti i suoi figli gemelli, ritardati e reietti, lasciati sulla terra come rifiuti, a ricordare l’oscenità della vita della loro aguzzina, la loro madre, che li ha allattati con il vino invece che con il proprio latte, consegnando ad essi il ricordo della sua dannata esistenza, terminata nella terra dei Campi Flegrei, lì dove prendevano dimora i miti dell’antica Grecia.
Ma è ad un’altra terra e ad un altro scempio che le vicende narrate in Malacrescita si riferiscono: quelle della cosiddetta Terra dei fuochi, dove i veleni sotterranei e poi aerei sparsi come semi dalla camorra affarista dei nostri giorni determinano il destino di intere popolazioni, come cancro corrosivo, malattia cui non si può scampare.
Il colore rosso è il protagonista del dramma narrato da Borrelli: quello del mestruo precoce di Maria Sibilla, arrivato improvvisamente quando era bambina perché cresciuta mangiando i pomodori coltivati da suo padre, anch’essi rossi, ma gonfiati con gli ormoni, quegli stessi ormoni che l’hanno resa improvvisamente adulta. Rosso è anche il colore del sangue di cui si nutre la tragedia. E del vino, con il quale Maria Sibilla avvelena i propri figli , avuti da un camorrista che regna nelle terre devastate dai veleni, che, come Giasone, la tradisce, subendone infine la sua vendetta. Maria Sibilla non uccide i propri figli, come Medea, ma per evitare che si perpetui la stirpe del suo uomo, Sandokanne, li consegna alla terra malati e deformi, capaci solo di ricordare per sempre il suo dolore e la sua follia. In scena solo I due figli, uno interpretato da Mimmo Borrelli, l’altro dai suoni di Antonio Della Ragione, realizzati live in palcoscenico. Di suoni, di voci, di bestemmie, di versi e di lamenti è fatto tutto il racconto, in cui Borrelli è di volta in volta Maria, Sandokanne ed il loro figlio che racconta, mentre l’altro gemello, cui manca la parola, si esprime solo attraverso i suoni, spesso ancestrali, dei suoi strumenti. Borrelli partorisce in questo modo una drammaturgia viscerale, che sembra uscita di getto dai vulcani dei suoi luoghi di origine: la drammaticità della tragedia nelle mani dell’artista diventa esplosione linguistica, lapillo sonoro espressione di una continua schisi mentale di cui il maestro napoletano si mostra padrone assoluto, senza alcun compiacimento.
Nel racconto del drammaturgo il mito narrato da Euripide si mescola così alla realtà delle campagne incancrenite, delle malattie conseguenti all’avvelenamento delle terre, ma anche ai racconti raccolti dai vecchi del proprio paese di origine, Torregaveta, non lontano dall’antro in cui la Sibilla dei greci vaticinava il futuro. Proprio il futuro della stirpe dei Sandokanne viene negato ai figli di Maria Sibilla, dopo un avvelenamento cominciato durante l’attesa del parto e poi continuato dopo la loro nascita, raccontato, oltre che al pubblico, ad una gatta, animale che nei racconti popolari si diceva essere in grado di togliere il latte alle madri.
Non ha latte la Medea di Borrelli, i suoi seni sono drammaticamente vuoti, come vuote sono le bottiglie di pomodori che contornano la sua tomba sulla scena, sorta di altare che racconta, esattamente come nelle rappresentazioni dell’ antica Grecia, una tragedia che si è già compiuta, lasciando sulla terra le tracce del male che la ha accompagnata.
Medea nella Terra dei fuochi – la tragedia narrata da Borrelli
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