«Uscita di emergenza» di Manlio Santanelli il Teatro 99 Posti è al Festival “Teatro XS”

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foto  Maurizio Mansi

“Uscita di emergenza” di Manlio Santanelli, un testo del 1978 rappresentato a Napoli, per la prima volta, il 7 novembre 1980 al Teatro San Ferdinando pochi giorni prima del disastroso terremoto dell’Irpinia.
Sul palcoscenico del Teatro Genovesi di Salerno questo testo è andato in scena il 4 febbraio 2024 nella produzione di ArTeatro e Co.C.I.S. / Teatro 99 Posti di Mercogliano (Av) per la regia di Gianni Di Nardo, lo spettacolo è in concorso al 15° Festival Nazionale “Teatro XS” Città di Salerno 2024.
I due protagonisti Cirillo e Pacebbene interpretati, rispettivamente, da Paolo Capozzo e da Alfonso Grassi, si sono rivelati, ancora una volta, personaggi con i quali è difficile non simpatizzare, carichi di fragilità e di umane debolezze, ma anche di un’angosciosa solitudine che purtroppo emargina ed è specchio di ben più profonde incomunicabilità.
Nei primi anni Ottanta si trattò di un testo spartiacque, che avviò quella felice stagione, ricca di sperimentazione e novità, nota come della nuova drammaturgia partenopea dei vari Santanelli, Ruccello, Moscato e Silvestri, una sorta di nouvelle vague post-edoarduana, fatta di ricerca linguistica e dialettale, ma capace anche di stabilire relazioni di contiguità e negazione con l’opera dei grandi autori teatrali della tradizione napoletana del ‘900. Cirillo e Pacebbene sono reduci da vite agre e disincantate, ex suggeritore teatrale il primo, colto e trasgressivo, il secondo, invece, ex sagrestano semplicione e viscerale, timorato di Dio e tormentato da un lontano peccato. Quelle vite, però, apparentemente più coerenti sono alle spalle e i due si ritrovano a coabitare in uno stabile fatiscente, in parte dichiarato pericolante, a causa del bradisismo dei Campi Flegrei. Ma è tutto il quartiere pressoché disabitato. La vicenda, da un testo che può oramai considerarsi classico, conserva intatta una sua attualità, perché l’emarginazione sociale e la precarietà sono fenomeni tutt’altro che sconfitti, anzi proprio quest’ultima è assurta a condizione esistenziale sempre più diffusa. Sbattuti fuori dalle vite precedenti, i due coabitano, per casualità ma anche per necessità, condividendo scampoli di esistenza, memorie tragicomiche ed una stanzetta con pochi arredi essenziali, due letti, le sedie e un tavolo, con cucinino e servizio annesso. Nessuna concessione al superfluo.
In un’imbrigliante routine tra mura e soffitto fatiscenti ed un rischio di crollo sempre in agguato, mangiano pane e ristrettezze economiche, mentre i ricordi sono il lusso che si snocciolano in conversazioni alquanto surreali. Pacebbene ha dovuto abbandonare la chiesa per un incidente di percorso legato alla carnalità, più che praticata soprattutto pensata, figurarsi possibili fremiti per una bimba da battezzare! Cirillo invece ha abbandonato teatro e tournée dopo la morte della primadonna, la grande signora che amò una notte soltanto, con poesia e trasporto, il sogno contro la prosaica vita coniugale anch’essa, oramai, alle spalle perché pure la moglie lo ha tradito con il padrone di casa.
Simulacri di quelle difficoltà relazionali con il genere femminile per Pacebbene una bambolina nascosta tra le coperte del letto e per Cirillo una teatrale vestaglia da donna stipata in una valigia sotto il letto, lo sguardo dell’autore, intanto, in bilico sulle loro umane debolezze, si poggia tra il benevolo e lo sprezzante, parimenti al nostro sguardo di spettatori. Sì perché ai loro toni surreali, ed al pendolo tra intellettualismo ed ancestralità, ci si affeziona piano piano,  familiarizzando con il loro disastro esistenziale. Pacebbene ha mascherato nella vita di parrocchia, a latere e di sbieco con una sacralità opportunistica e di comodo, le sue profonde insicurezze, mentre Cirillo con estro ed istrionismo un poco demodé, demiurgo di tante vite sulla scena, ha fallito proprio con il copione della sua. Tutt’intorno si stringe la morsa tellurica e smottata del territorio che sembra avere contagiato queste due vite deformate, fatte di quotidiana ritualità, mentre l’altrove non esiste ed il fuori sembra meno rassicurante delle quattro mura che crepano, ogni volta un poco di più, ad ogni smottamento. Si spiano reciprocamente e si punzecchiano quei due, mentre la banalità delle loro esistenze sembra misteriosamente illuminata dalla  capacità di familiarizzare con miseria e difficoltà, di restare ancorati al giorno dopo giorno, di trovare un accomodamento per sopravvivere. Tra repellenza e simpatia, pietas ed interrogativi, stupori e straniamento, si alternano momenti carichi di buffa simpatia e di furbizie esistenziali, messe in campo per crederci ancora, per continuare a sperare parafrasando una nota canzone. La resa dello spettacolo è stata composita e sfaccettata, coerentemente al testo, le interpretazioni sempre all’altezza, senza incoerenze e sbavature, con gli attori che hanno reso tangibile l’instabilità, protagonista del bradisismo flegreo ed esistenziale dei protagonisti.
La bravura, poi, di entrambi è avere saputo mescolare insieme, con grande naturalezza, momenti di comicità napoletana in cui la vena scurrile, che a volte emerge, non si deposita mai nella bassa volgarità, a momenti più commoventi ed intensi, nei quali si colgono rimandi tematici di spessore e profondità. Sarà poi la confidenza millenaria dei napoletani con il pericolo di una terra vulcanica a dare loro la forza di resistere, in quella tana-rifugio, dalla quale non riescono o non vogliono scappare?
La ripetitività, che non è mai noia né banalità, crea una spirale di protezione, ora comica ora drammatica, sembra di andare avanti ma si ritorna al punto di partenza. Intanto nostra signora Precarietà domina lo spettacolo, e dopo oltre quarant’anni anche noi ne sappiamo qualcosa, e se ci sentiamo distanti da questo humus sgarrupato come non avvertirne, paradossalmente,  una carnale vicinanza ed un moto di comprensione, angosciato ed inquieto?
Il finale è volutamente aperto.
E non si capisce se esiste un’uscita di emergenza cioè di sicurezza, tanto agognata quanto smarrita, e se i due l’hanno veramente cercata, oppure no.
Si rifletterà dopo, per ora applausi spontanei e calorosi.

Marisa Paladino

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