Ha preso il via l’ottava edizione della rassegna Pompei Theatrum Mundi, per la direzione artistica di Roberto Andò.
La manifestazione estiva del Teatro di Napoli – Teatro Nazionale è organizzata in collaborazione con La Fondazione Campania dei Festival – Campania Teatro Festival 2025 che si svolge presso il Teatro Grande di Pompei dal 20 giugno al 20 luglio 2025.
Il primo dei 4 eventi programmati è stato «GOLEM» in scena al Teatro Grande di Pompei il 20 e il 21 giugno 2025, per l’ideazione, il testo e la regia di Amos Gitaï e il testo di Amos Gitaï e Marie-José Sanselme; prodotto da La Colline – théâtre national in collaborazione con Théâtre du Châtelet e Cécile Trémolières e in collaborazione con Fondazione Campania dei Festival – Campania Teatro Festival.
Pienamente funzionali alla realizzazione dello spettacolo sono il lighting designer di Jean Kalman e i video di Laurent Truchot, i costumi di Fanny Brouste e le scene di Amos Gitaï e Sara Arneberg Gitai.
La narrazione base dell’azione scenica e musicale si divide tra la creazione del GOLEM per sconfiggere le ingiustizie e la riflessione sulla sopravvivenza delle minoranze nel mondo dell’omologazione.
È una considerazione sulle etichette che applichiamo alle persone per definirle e racchiuderle in classificazioni per rassicurarci in previsione della conoscenza/convivenza con “l’altro”.
Sono le narrazioni dei personaggi basate sulla loro singolare gabbia di vita, che conducono lo spettatore a riflettere sul tema che ognuno è inizialmente indefinito a cui viene data un’etichetta esterna e, solo grazie alle emozioni ha la possibilità di divenire una persona.
Alla domanda apparentemente più semplice “come ti chiami” la risposta diviene difficile se ti hanno insegnato a nascondere il tuo cognome perché di origine ebraica; come definire un arabo cristiano che vive in terra ebraica; avere un cognome di origine protestante scambiato per ebraico … Ognuno di noi è altro e in se protegge le tradizioni del passato familiare per essere il presente.
Un eccellente cast internazionale ha interpretato e agito lo spettacolo:Bahira Ablassi, Irène Jacob, Micha Lescot, Laurent Naouri, Menashe Noy, Minas Qarawany, Anne-Laure Ségla accompagnato dai musicisti Alexey Kochetkov, Kioomars Musayyebi, Florian Pichlbauer e dalle cantanti Amandine Bontemps, Zoé Fouray, Sophie Leleu, Lucy Page dirette da Richard Wilberforce.
È una dedica ai perseguitati del mondo e in particolare ai più deboli, che non posseggono gli strumenti per difendersi dalle ingiustizie, dalle distruzioni e dalle guerre, i cui sguardi rivelano lo stupore dinanzi alle iniquità.
Sullo schermo prende forma la proiezione di un gruppo di persone in cammino inserite nella desolazione delle rovine degli scavi del teatro di Pompei che raggiunge l’apice narrativo con le immagini di bambini felici ignoranti del futuro che scivolano sugli attori affogati in mucchi di vestiti/ricordi.
Siamo tutti custodi dei beni preziosi prima che la bufera della persecuzione si abbatta, chi ha la possibilità scappa altri restano testimoni delle atrocità.
Amos Gitaï tesse la sua drammaturgia ispirandosi al racconto Golem di Isaac Bashevis Singer, e ad alcuni testi visionari di Joseph Roth e Lamed Shapiro, a testi storici di Léon Poliakov.
La persecuzione deve avere un’ accusa e per Rabbi Leib, rabbino della comunità di Praga, deve difendere la comunità dall’accusa di magiare il sangue dei bambini cristiani rapiti. Il giudice dalla dubbia moralità sarà poco interessato ad ascoltare e scoprire la verità.
Il rabbino non può che creare la mitica figura del Golem, nato dalla terra argillosa e dalle mani dell’uomo, per sperare nella salvezza.
Il Golem è un gigante con una grande forza fisica che, in base all’etichetta che gli viene imposta, diviene buono o malvagio, Frankenstein angelo sterminatore Dracula ma anche angelo custode. Il bene e il male non possono definire il Golem ma le emozioni lo rendono umano e l’amore una volta inciso nel cuore non può essere più cancellato, così come il teatro è il luogo della riflessione, della speranza e della resilienza.
«…chi era quel gigante? Ci si chiedeva da tutte le parti ma nessuno fu in grado di rispondere. Tutto era come un sogno o una di quelle fiabe che raccontano le vecchie filando il filo a lume di candela».
Lo spettacolo per restituire le singolarità coesistenti pacificamente è una babele di lingue tedesca, inglese, araba, spagnola, francese, ebraica, russa, yiddish. Soprattutto yiddish è usato da Singer come lingua della narrazione pacifica, del viandante amante della conoscenza.
Amos Gitaï nelle sue note di regia afferma che Singer e anche lui «dedica questa storia ai perseguitati, agli oppressi in tutto il mondo, giovani e vecchi, ebrei e gentili, nella folle speranza che il tempo delle accuse ingiuste e dei decreti iniqui giunga un giorno alla fine. Sceglie come lingua lo yiddish perché è una lingua in esilio, senza paese, senza confini, una lingua non sostenuta da alcun governo; una lingua che non possiede quasi parole relative ad armi, munizioni, esercizio o pratica militare; una lingua che era disprezzata, sia dai non ebrei che dalla maggioranza degli ebrei emancipati. Per natura, lo yiddish non domina, non dà la vittoria per scontata. Non esige, non comanda, scivola, si insinua clandestinamente tra i poteri di distruzione. È una lingua di un’umanità piena di timore e speranza. In senso figurato, lo yiddish è la lingua saggia e umile di tutti, la lingua di tutta l’umanità nella paura e nella speranza. Era la lingua dei sognatori e dei cabalisti. Il ghetto non era solo un rifugio per una minoranza perseguitata, era anche il luogo in cui si faceva la grande esperienza dell’autodisciplina e dell’umanesimo, nonostante tutta la brutalità che lo circondava. C’è ancora una ragione per non dimenticare lo yiddish, ed è questa: certo, lo yiddish è una lingua morente, ma è l’unica lingua che parlo bene. Lo yiddish è la lingua di mia madre, e una madre non muore mai veramente».
Tonia Barone