Un piacer serbato ai saggi, o sia la dilettevole professione del critico musicale – La critica del Melodramma nell’Italia risorgimentale

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La critica del Melodramma nell’Italia risorgimentale

Nella metà del XIX secolo sono tre le città in cui si localizza l’attività musicale che in Italia naturalmente è quasi esclusivamente operistica, parliamo di Milano, Venezia e Napoli.
Solo più tardi si aggiungeranno Roma e Torino per motivazioni solo apparentemente opposte, in quanto la città piemontese vorrà accreditarsi quale nuova capitale del Regno unitario d’Italia, mentre il paese guarderà a Roma come futura città liberata dalle censure pontificie e quindi disposta ad accogliere opere di carattere non religioso quali i tempi ormai in Europa propongono.
A Milano è attiva la “Gazzetta Musicale di Milano” e questa testata ci restituisce le cronache e le recensioni delle prime al Teatro alla Scala.
Dal numero del 23 gennaio 1853, a firma Raimondo Boucheron, riportiamo: «Finalmente il Rigoletto, l’opera di Verdi il di cui merito fu tanto propugnato ed oppugnato dal giornalismo, subì quella, che di ordinario dicesi la prova di fuoco sul nostro maggior teatro.
La quantità di spettatori che un’ora prima dell’incominciare popolava la platea, la piccionaia, e più tardi i palchi, mentre la rallegrava il cuore all’impresa con l’abbondante provento, provava la comune curiosità, il comune desiderio di sentire e giudicare questa produzione che, già percorsi i primari teatri, veniva esposta qui per la prima volta e mostrava che nella scelta di questo spartito l’impresa non aveva fatto errore. Conticuere omnes, intentique ora tenebant, direbbe un classico, appena il bravo direttore diede con l’arco il segno dell’attacco…».
Si nota fin dalle prime battute della recensione come l’attenzione e l’impostazione sia ancora cronachistica, attenta agli aspetti di ambiente e tesa a ricostruire le emozioni di uno spettatore tipo, quale probabilmente il lettore desidererebbe essere e non sarà mai.
Più avanti troviamo: «Tutto era magnifico e l’orchestra toccò l’apice della perfezione tanto nell’ insieme, quanto nella finitezza dell’accento onde meritossi un particolare encomio (…). Il tenore Carrion (Duca), tanto applaudito nel Mosè sulle scene della Canobbiana lo scorso autunno, cantò con disinvoltura e brio, riscosse applausi particolarmente nella cavatina di sortita, nel duetto colla signora Angles-Fortuni, e nella graziosa canzone e quartetto, atto terzo, sebbene non riuscissero un po’ penosi e talora calanti certi slanci di voce negli estremi acuti.
La signora Angles-Fortuni (Gilda) sembrò più di tutti compresa dall’imponenza di così basto teatro. La sua voce, tuttoché pura ed ottimamente educata, sembrò alla pluralità troppo debole per un tanto incarico. Ma chi seppe appagare più d’ogni altro il non facile gusto del pubblico fu il Corsi (Rigoletto) il quale emerse come ottimo cantante insieme ad attore franco, animato e molto intelligente e bene ne fu remunerato dal pubblico con applausi e chiamate».
Trattandosi pressoché di prime esecuzioni di opere che apparivano sulle scene, gran parte della recensione veniva dedicata al musicista e alla librettista dell’opera stessa.
«Io non vo’ scemare d’un pelo il merito di Verdi di avere nel Rigoletto adottato un genere di musica che lascia ai cantori il campo di spiegare tutte le grazie, tutti i pregi di una voce soave bene educata, e all’auditore non introna l’orecchio così che quasi assordato dal teatro si parta. Io gliene so (sic) anzi assai buon grado, se dopo avere assistito alla prima rappresentazione, fui allettato a ritornarvi alla seconda, e mi lusingo di sentirne altre ancora; ma so (sic) buon grado altresì al signor Piave che gli somministrò un dramma svariato di caratteri come d’accidenti, cui ben s’addice una musica a quando a quando brillante ed ilare, la quale, non instancando coi continui tratti di forza, dà a quelli, cui qualche volta si spinge, maggiore efficacia e splendore».
La recensione continua ancora per qualche centinaio di battute, ma non basta, così che alla fine l’autore fra parentesi annota:« (il finale nel prossimo numero)» lasciando intendere che ritornerà sul medesimo argomento. La qualcosa gli archivi riportano accada il 13 febbraio dello stesso anno sempre sulla Gazzetta Musicale di Milano.
“L’Italia musicale” altra rivista milanese del tempo riserva a Verdi di un trattamento non lusinghiero a proposito de “Il Trovatore”, di cui un recensore che non firma scrive:
«Il Trovatore s’è perduto. Le apoteosi cantate e ricantate dagli amici del maestro Verdi, o meglio dagli amici delle sue opere, non solamente non valsero a nulla, ma aiutarono a farne più rovinosa la sua caduta. Essi ne avran rammarico, ma, tal sia di loro. Chi non vuol tirarsi addosso i fulmini, non suoni le campane.
Del resto, però è a ritenersi che l’influenza della troppa aspettazione non fu, per l’esito infelice dell’altra sera, che secondaria affatto. “Il Trovatore” è una sconciatura, un essere male in gambe (…) V’ha nel Trovatore delle cantilene e de’ movimenti, che è un po’ d’anni addietro, non si sarebbero tollerati nemmeno nelle opere buffe».
La Gazzetta Musicale di Milano del 18 settembre 1853 ha toni più levigati, attribuendo l’insuccesso agli esecutori, e nel corpo della recensione troviamo:
«A noi pare, prima di tutto, che quest’opera sia andata in iscena non abbastanza studiata non bene affiatata. Mancò per conseguenza d’accordo e nelle singole parti e nell’insieme. Parlando dei cantanti, in generale, sviarono più o meno quasi tutti; e, più di essi e in modo veramente strano e insolito, i cori, a malgrado degli sforzi dell’orchestra, che fece bene, ma che non poté prevalere».
Nel giudizio complessivamente negativo, spicca una nota di merito per il tenore Bettini che, dopo essere stato definito imbarazzato e incerto, viene così apostrofato:
«…alla Cabaletta della sua aria, nel terzetto finale, egli si fece coraggio e spiego quel tesoro di voce, che a pochi eletti soltanto concede madre natura. Che della sua voce bellissima sappia questo giovane artista fare quell’uso che potrebbe renderla impareggiabile, noi nol diremo; ma non taceremo per altro, non dipendere che dalla sua volontà di riescire un tenore senza rivali».
“La Traviata” conclude quella che viene definita la trilogia popolare verdiana, espressione mai adoperata da Verdi stesso, ma che trova fondamento nella funzione culturale che i tre principali titoli verdiani svolgono attorno all’unificazione d’Italia, tant’è che Antonio Gramsci avrebbe osservato come il melodramma verdiano principalmente avesse fornito la prima lingua comune agli italiani.
Con la Traviata si può dire nasca la figura del soprano moderno, anzi qualcuno fin dalle prime rappresentazioni osserva che Violetta sia in realtà un soprano triplice, e ancora oggi si suole dire che la Violetta del primo atto sia un soprano lirico/leggero, quella del secondo atto sia un lirico puro e quella del terzo un drammatico.
In verità Verdi opera una parziale discontinuità con la voce sopranile del passato, così come per gli altri registri vocali, ciò deriva dalla necessità che il grande compositore ravvisa, di dare connotazioni realistiche, ma non veriste, ai personaggi, o come si diceva ai caratteri, i quali non sono più maschere, simboli, o sentimenti assoluti, eroi mitologici, ma donne e uomini che danno vita alla vicenda drammaturgica.
Quindi non è la vocalità sopranile nella Traviata che evolve di atto in atto ma è l’atteggiamento di Violetta donna nei confronti delle situazioni che la coinvolgono la circondano e infine la uccidono a farne mutare l’espressività vocale.
Il fenomeno la Traviata fu un fulmine a ciel sereno per il pubblico e parte della critica di metà Ottocento, e così si spiegano i pareri discordanti sulla partitura verdiana, ma anche i parziali insuccessi nelle platee italiane.
L’Uomo di Pietra il 31 dicembre 1859 così esordisce nel recensire La Traviata:
«Chi ier sera alla Scala all’udire quel soavissimo preludio di violini che serve d’introduzione alla Traviata, non si sentì stemperare il cuore per la dolcezza! Chi non si sentì disposto all’indulgenza verso il prossimo, cantante e danzante! Chi? Il pubblico. Oh che cuori di macigno vi sono a questo mondo!… Fischiarono; e fecero male! Dovevano star cheti; non applaudire è già qualche cosa; ma fischiare, è troppo… Fra i fischiatori ce n’erano taluni sì spietati, sì indiscreti, in ispecie sulla piccionaia, che mi parvero pagati»
Il recensore, tuttavia, non può risparmiare la protagonista signora Enrichetta Weiser, che definisce poca cosa e rileva, con acutezza tutta risorgimentale, che essa pronuncia l’italiano “come quei cari nostri ex padroni”.
“La Gazzetta Musicale di Milano” ha parole tombali per le prime tre recite de La Traviata, Della stagione 1860:
«Tre spettacoli in due sere, che sommati danno un solo sfasciamento. Il Teatro della Scala, tempio rispettato della musica italiana, vede spezzati i suoi idoli, scompigliati e quasi dissennati i suoi sacerdoti. Perché alle annerite pareti non si appendono le epigrafi a ricordo delle glorie passate? È meglio un cadavere onorato, che l’inguaribile infermo, sofferente spasimi e oltraggi. La storia delle prime due sere è inenarrabile».
Più avanti il recensore si lascia andare a considerazioni sul casting scaligero:
«Per la Traviata ci vien meno ogni volta di parlare: Il Teatro della Scala è divenuto l‘ambito agone degli artisti ignoti e mediocrissimi; quelle tavole privilegiate sono ora ridotte a sostenere il peso di cantanti incolti, che all’inesperienza dell’arte aggiungono il ridicolo delle movenze».

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