In Exitu – La parola teatrale incandescente di Giovanni Testori

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La drammaturgia di Giovanni Testori, così innervata di angoscia esistenziale e scandalosamente vicina ai più reietti della società, nel testo In exitu edito nel 1988 ha raggiunto vertici di singolare incandescenza della parola. In teatro nello stesso anno fu uno scandalo per quanti assistettero al Teatro La Pergola di Firenze alla rappresentazione, un cibo indigesto che “investì, divise, urlò, schernì”, la serata-evento allestita, invece, sulle scalinate della stazione Centrale di Milano, l’amatissima, fu occasione di riscatto. In exitu è un testo senza ritorno, in cui l’autore si immerse in quel “ventre del teatro” di cui aveva scritto nel 1968 con il manifesto programmatico della sua drammaturgia. Il Napoli Teatro Festival a distanza di oltre trent’anni ripropone l’opera al Teatro Nuovo, sabato 8 e domenica 9 giugno 2019. La produzione è della Compagnia Lombardi-Tiezzi, molto vicina e attenta al teatro di Testori, Roberto Latini che ne è l’interprete ed il regista, ha scavato nella complessa lingua dell’autore e nel corpo del protagonista e grandi doti attoriali e performative hanno reso la serata davvero magnetica. Il dramma esistenziale di Riboldi Gino, eroinomane, omosessuale e marchettaro, corroso in un corpo disfatto e mutilato in una coscienza devastata, saranno un tutt’uno con l’interprete, che griderà il suo odio nei confronti della società ma non per la vita ed il suo essere nato. Il Testori anni ’60, che racconta i drammi intimi ed i “segreti” drammi di un’umanità del variegato l’hinterland milanese, negli anni ’80 non riconosce più la sua Milano, indifferente alla povertà ed all’emarginazione, quella ricordata come la “Milano da bere”, per intenderci. Oggi quindi urge una “confessione”, la parola teatrale che non azzera il dolore e la pietas umana, in una religiosa ricerca del senso primario dell’esistere. La scelta di campo è a favore degli ultimi, la sperimentazione linguistica conduce l’autore ad una parola di grande “intensità fisica”, grido che raccoglie in sé il vagito dell’origine ed il rantolo della fine. Riboldi cognome, Gino nome, come in un appello tra i banchi di scuola, Riboldi Gino si presenterà in tutta la piéce il protagonista, forse cercandosi, ha ossessive reminiscenze nelle ultime ore di vita prima dell’overdose fatale di eroina. La sua è una via crucis che parte dai giardinetti della stazione Centrale fino all’interno della stessa dove, tra odore di piscio ed orinatoi, si consumerà la sua morte annunciata. Le stazioni avvengono “nella notte (marcia)”, nella città “coperta di nebbia (marcia) sulla groppa della città-cavalla. Viola. Nella notte. Marcia”, nella città “contristata”, “umiliata”, “derelitta”, “assediata”, dove “Lì, è. Lui (nessuno). Lì fu (nessuno). Lì era. Lui (nessuno). Lì sarà. Lui (nessuno)”.
Ci sono tutte le premesse per una straripante interpretazione di
Roberto Latini, attore romano che ha abbracciato in pieno testo, personaggio e scrittura, in un corpo a corpo carico di disperazione con il protagonista, che si prostituisce per una dose, accettando perversioni, violenze fisiche e verbali ma conservando, tuttavia, interlocutori barlumi di coscienza. Su un palcoscenico circondato da teli leggeri, bianchi a tutta altezza, che dondolano appena, come mossi dal vento, un ring quasi metafisico, tra le atmosfere sonore di Gianluca Misiti ed i giochi di luci di Max Mugnai, il protagonista ha un andatura slombata, reclama sguardi sulla propria abiezione e ascolto della sua parola pornografica. Ora irrequieto, ora più rallentato, è “spezzato” come il microfono con asta che tiene stretto a sé, che gli serve per amplificare le invettive contro la società, ma un’eco di ritorno è il suono deformato restituito al nostro ascolto, forse metafora di una parola oramai rifiutata. Espressionismo linguistico, parlata dialettale come lingua materna, una babele di parole imbrattate di slang, italiano e anche latino, non è tutto comprensibile, ma poco importa, le sonorità ed il pastiche letterario restituiscono la drammatica situazione. I singhiozzi, le frasi smozzicate, il sillabare interrotto, tutto è un grido di denuncia fino al richiamo ultimo, al Mistero-Dio invocato là dove lo sfacelo umano appare irreparabile. Ed è proprio il mondo degli “irreparabili”, ultimi, diseredati, peccatori, disperati, che viene intuito da Testori come immagine di Cristo. Un’ora e dieci minuti di monologo lacerato, tra i fantasmi dell’infanzia, la regola scolastica troppo distante dalle ribellioni covate, la dolorosa morte del padre, le sofferte incomprensioni con la madre, lo scandalo nel riconoscersi diverso, il disgusto per la società “corpus omnia” che genera emarginazione, il protagonista è sempre più incendiario nel suo verbo ed il suo cantore è lavico ed eruttante, un grumo di balbettii, smozzicate sillabe e singhiozzi. La performance di Roberto Latini è febbrile, allucinata, scomposta, arrogante, a tratti anche disturbante, ma percorsa spesso da uno struggente amore negato, o da un offeso prezzolato amore. L’urlo del suo cuore, però, non tace. Barcollante ed incerto, reclama aiuto, perdono, un abbraccio materno, un soccorso in questa disperazione che lo inonda, mentre brucia il bisogno di una dose. Sarà l’ennesimo buco, quello fatale. In una struggente e allucinata cosmogonia c’è il ritorno di Riboldi Gino alle “radici dell’indicibile”, una regressione fetale che è rinascita, tra l’ultima vertigine e l’anelito di luce “Per l’eterno. Nella Goccia. Serrato su. Imbracciato, ‘Me in una cuna. Pussè ammò. ‘Me in una cà. La sua. La sua de lu. La sua de lu. La sua de lu. La sua de lu, mamma. La sua de lu, papà…”.
Tra la curiosità frettolosa o l’indifferenza dei passanti, all’indomani, sarà soltanto un corpo su una barella, coperto da un lenzuolo bianco “Tutti, però, al passaggio, scorsero una sorta di luce che, lentissimamente, andava formandosi sopra il cadavere e pareva vincere il grigior delle volte e il buio di ciò che, di là da esse, risultava improprio definir alba, benché neppur possibile fosse ritener notte”.
Per noi, pubblico del Teatro Nuovo, quell’alba è una bolla aerostatica che cresce sul cadavere, lentamente. Una semisfera giallo-paglierina irradiata da una luce di sogno. La Goccia primaria dell’origine, ventre da cui tutto parte e tutto ritorna. Il tormentato viaggio di Testori verso la verità dell’Essere resta ancora oggi una testimonianza forte, che scuote la coscienza, laica o religiosa che sia.
Una parola teatrale incandescente, resa al massimo della sua ustione da un applauditissimo (e sudatissimo)
Roberto Latini.

Marisa Paladino

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