Perché La Bohème non andrà mai “in soffitta”

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La storia di Mimì era stata pubblicata dapprima a puntate come feuilleton, romanzo d’appendice di Murger tra marzo 1845 e l’aprile 1849 su “Le Corsaire Satan” col titolo di “Scenes de la Bohème” e divenuta commedia come “La vie de Bohème”, rappresentata nel 1849 con tale successo da indurre l’autore a realizzarne un romanzo col titolo con cui è giunto ai librettisti di fine secolo di “Scènes de la vie de Bohème”.
Già Leoncavallo era da qualche mese al lavoro sul medesimo soggetto quando Puccini, probabilmente il 1 9 il 20 marzo del 1893, a Milano, informò il suo collega di avere intenzione di porre immediatamente mano a La Bohème.
I giornali cittadini si schierarono dividendosi in due fazioni, ma non vi fu in realtà una lotta per la primogenitura.
“Del resto cosa importa al Maestro Leoncavallo di questo? Egli musichi, io musicherò, il pubblico giudicherà. La precedenza in arte non implica che si debba interpretare il medesimo soggetto con uguali intendimenti artistici”.
Tuttavia sembrerebbe che le rimostranze di Leoncavallo avessero un’altra motivazione che non fosse il primato temporale; infatti lo stesso musicista di Pagliacci, aveva sottoposto, in qualità di librettista, il soggetto di Bohème a Puccini e questi non lo reputò, nel 1892, degno di attenzione.
E’ probabile che il Maestro lucchese non fosse stato ben impressionato dalla qualità poetica del lavoro di Leoncavallo e ne abbia anche frettolosamente abbandonata la lettura.
A dar forma alla storia creata da Henri Murger (1822-1861), che vi introdusse forti connotazioni autobiografiche (l’amante del poeta morì di tisi) furono chiamati due autori che avrebbero segnato tappe importanti del teatro musicale; Giuseppe Giacosa e Luigi Illica.
Il primo avrebbe ricoperto il ruolo di rimatore, mentre al secondo sarebbe stato affidato quello di sceneggiatore: un sodalizio mai pareggiato!
“Gli autori del presente libretto, meglio che seguire a passo a passo il libro di Murger (anche per ragioni di opportunità teatrali e soprattutto musicali) hanno voluto ispirarsi alla sua essenza racchiusa in questa mirabile prefazione”.
Scrivono Illica e Giacosa, riferendosi alla premessa di Murger al romanzo che riportiamo stralciata:
“La loro esistenza è un’opera di genio (…) quando il bisogno ve li costringe, astinenti come anacoreti – ma se nelle loro mani cade un po’ di fortuna, eccoli cavalcare in groppa alle più fantasiose matterie,amando le più belle donne e le più giovani,bevendo i vini migliori (….)”.
Il “trio” Puccini-Illica-Giacosa aveva colto perfettamente il clima della società borghese di fine XIX secolo, desiderosa di certezze e preoccupata per le nuove dinamiche sociali che l’industrializzazione avanzata stava promuovendo.
Le argomentazioni risorgimentaliste, che avevano costituito elemento centrale o di sfondo alla produzione verdiana, non solo avevano perduto ragion d’essere, una volta raggiunta l’unità d’Italia, ma rischiavano persino di incrinare i processi di pacificazione interna e di reclutamento delle classi medie ancora nostalgiche del recente passato, in cui, pur sotto dominazioni straniere, si erano ritagliate piccoli e grandi privilegi.
La letteratura e ancor più il melodramma avevano la necessità di porre al centro vicende e personaggi della vita comune.
Il bivio che si prospettava conduceva al verismo, da un ramo, e all’impressionismo, dall’altro; il primo con maggiore affinità con le istanze socialiste e populiste, che diverranno prede, spesso incolpevoli, del fascismo; il secondo aperto a vedute più europee e a forte impron ta borghese.
La gran parte del mondo musicale italiano imboccò la via verista, costituendo la “Giovane Scuola”, Puccini ebbe il coraggio di differenziarsi da subito rinunciando ad ogni suggestione verista: in questa scelta va ricercato il motivo del successo della versione pucciniana de La Bohème rispetto a quella di Leoncavallo, che pure musicista di talento e di ottima scuola era.
L’argomento bohémien transalpino visto con occhi veristi si prestava poco all’ironia e a quel quadro di gioventù perduta che sono precipui in Puccini; Leoncavallo puntò sugli aspetti tragici e sulla rispondenza alla realtà.
La malinconia e la tragedia sentimentale, rimovibile con un fazzoletto bene a portata di mano (Puccini), diventavano evocazione di privilegi perduti definitivamente o di ingiustizie sociali a cui porre fine (Leoncavallo).
Claudio Sartori :”La sua vicenda scenica è sempre fantastica, mai naturalistica, mai verista, è un puro prodotto dell’immaginazione, d’intuizione, di sensibilità, di arte, è sottilmente simbolica e profondamente, costituzionalmente irreale”.
Non sarà un caso se il musicista lucchese rifiutò di musicare “La lupa” di Giovanni Verga, autore che invece era stato, sia pure con mistificazioni e controverse attribuzioni di diritti, protagonista del successo di Cavalleria rusticana di Pietro Mascagni solo cinque anni prima.
Al progetto impressionista del musicista contribuiscono in piena sintonia, malgrado i vivaci scambi epistolari, Illica e Giacosa, che confezionano un libretto volutamente privo dell’unità di azione di aristotelica memoria e che è suddiviso in quadri, anziché in atti, a sottolineare che di momenti isolati si tratta e che non va nemmeno ricercata la continuità della vicenda.
Si è detto come la fonte letteraria per la coppia di librettisti siano stati il romanzo d’appendice “Scènes de la Bohème” e la commedia “La vie de la Bohème” e la versione finale, sempre curata da Henri Murger, edita nel 1851 con il titolo di “Scene de la vie de Bohème”; i personaggi protagonisti del racconto in massima parte autobiografico di Murger subirono trasformazioni nel corso delle tre riedizioni e ancor più nella trasposizione per melodramma che operarono sui testi Illica, Giacosa e lo stesso Puccini.
In Rodolphe, Murger aveva rappresentato se stesso, ai tempi in cui divideva una soffitta parigina col pittore Léon Noël, quest’ultimo autore di una biografia in collaborazione con Nadar e con André Lélioux.
E’ sui personaggi femminili che la fantasia dei vari autori si impegna maggiormente; Murger aveva amato una Lucille, detta Mimì , che era morta a soli ventiquattro anni di tisi all’ Ospedale de La Pitié.
La Mimì pucciniana, tuttavia, corrisponde in Murger a Francine, anche lei malata di tisi, innamorata di un altro poeta bohémien, nelle braccia del quale ella muore in una fredda soffitta.
La Mimì di Murger non è una creatura angelica; è arrivista e incline al tradimento; Puccini prende su di sè l’onere di tradire e fonde Lucille e Francine in un unico personaggio, perpetrando un tradimento del testo autobiografico di Murger, ma, in un certo senso, restituendo al romanziere uomo parte dell’ “onore”.
In Puccini, nel primo e secondo quadro Mimì è indiscutibilmente Francine: sentimentale, dolce, credente anche se “non va spesso a messa”; Musetta esordisce come una donna consapevole del proprio appeal di cui si serve senza scrupoli.
Nel terzo quadro scopriamo una donna insospettabilmente diversa; Illica e Giacosa hanno tagliato l’atto della commedia di Murger in cui fa la comparsa il “viscontino” che diventerà l’amante di Mimì.
In Murger agisce uno zio ricco di Rodolphe, Durandin, che minaccia di diseredare lo squattrinato nipote a causa della condotta immorale di questi; in una scena che ricorda un’analoga ne La Dame aux camelias di Dumas, l’anziano parente si reca nella dimora di Rodolphe dove incontra Mimì e la implora di interrompere la relazione col giovane poeta, pena la diseredazione per immoralità.
Troppo ottocentesca e, soprattutto, troppo verdiana perché la situazione potesse trovare ospitalità nella partitura di Puccini.
La scelta di distinguersi dalla temperie verista e di rompere ogni continuità con il melodramma verdiano rappresentò un atto di coraggiosa autonomia che sconcertò più di un critico del tempo; “Come non lascia grande impressione sull’animo degli uditori, non lascerà grande traccia nella storia del teatro lirico” , sono le parole che Carlo Bersezio dedicò alla prima rappresentazione di Bohème, guadagnando per sè la fama di critico dalle corte vedute; Alfredo Colombani, dalle pagine del Corriere della Sera scriveva, con ben altro giudizio: “Ha qualità che possono farla piacere tanto a quelli che amano nella musica avere solo diletto, come a quelli che hanno maggiori esigenze”.
Certo, dovettero sorprendere quelle ricercate incertezze armoniche introdotte con finalità impressioniste, come negli accordi di primo rivolto di settima del primo quadro usati, al di fuori delle regole dell’armonia funzionale, non verso una tonica o una dominante, ma come a realizzare un’allegoria musicale dell’ondeggiare delle fiamme della stufa, ovvero quelle gelide quinte vuote del terzo quadro, affidate ad arpa e flauti, per descrivere un gelo di stillicidio di sentimenti e soffi di respiri interrotti dall’inesorabile male che strapperà Mimì alla sua giovinezza, elevando la fragile fioraia a simbolo di un’età senza ritorno.

In questa immagine è, probabilmente, racchiuso il segreto del fascino di La Bohème: la nostalgia per momenti che non potranno tornare, a cui sono legati i primi amori e le fatiche per le conquiste della vita e il ricordo commosso di coloro a cui il destino, che spesso ha le sembianze di un mondo che ignora la solidarietà, ha sottratto per sempre il fiato per cantare “quelle cose che han nome poesia”.

Dario Ascoli

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