Andrea Chènier: quando l’uomo sopravvive agli ideali

0

«Scrivo queste note di regia mentre infuria la guerra in Ucraina -. annota l’autore Pier Francesco Maestrini – Osservo i bozzetti del nostro Chénier e al contempo le immagini dei maggiori canali di informazione. La correlazione tra le due cose mi gela, poiché ciò che abbiamo cercato di proporre era rendere evidente come un periodo di radicale cambiamento così determinante per lo sviluppo del genere umano si sia trasformato in devastazione e terrore, anche se nato dal pensiero di gente illuminata».
Troppi danni fanno le idee quando diventano ideologie.

Andrea Chènier, magnum opus di Umberto Giordano, andato in scena  lo scorso 14 Ottobre al Teatro Comunale di Bologna, ed in replica fino al prossimo 23, è un libretto molto potente in cui si fa un’enorme fatica a ricondurre gli eventi al solito banale, inverosimile, antistorico e urticante cliché del bene contro il male. Paradigma, tra l’altro, fondante di un certo tipo di tradizione librettistica e melodrammatica, in cui le vicende narrate sono una compiacente legittimazione alla presa di potere delle nuove monarchie nazionali. W V.E.R.D.I per l’appunto.
Nello Chènier questo paradigma esplode in paradosso. Chi sono i buoni? Quella Contessa di Coigny –vittima innocente – «che tutti i giorni facevo l’elemosina»  nonostante rimanesse cieca alle sofferenze di un popolo? Così stolta da auspicare un «Ritorni l’allegria» poco prima di morire per mano dei rivoluzionari.
Oppure Gèrard? Colui che «l’ha rovinato il leggere» e che vilmente manda a morte il rivale d’amore, per poi pentirsi difronte alla potenza del sentimento di Maddalena: «Se della vita sua tu fai prezzo il mio corpo…ebbene prendimi».
Forse quella Madre condannata a morte a cui la contessina cede la vita? Eppure, anche lei fugge per salvarsi pur sapendo che un’altra testa innocente sarebbe rotolata al suo posto. Nessuno sembra realmente innocente.

Sullo sfondo di ogni rivoluzione, spesso accade che normali “cittadini” diventino avidi saccheggiatori, approfittando del momento storico per regolare vecchie faccende personali o per scavarsi piccole nicchie di potere. Parrebbe che all’ombra di grandi idee la statura dell’uomo si rimpicciolisca.
Ma veniamo alla recita, commentando per ordine di preferenza Regia, Cast e direzione. L’idea di base di Maestrini è possente e ben esposta fin dall’inizio.
La scena iniziale è rinchiusa in una gigantesca cornice al cui interno accadono gli eventi. L’atto diventa un quadro in movimento mentre sullo sfondo vengono proiettate le bellissime scene di Nicolas Boni.
Se spesso l’utilizzo di immagini proiettate sembra un riempitivo a basso costo per compensare una vacatio registica, questa volta diventa elemento sublimante (chi l’avrebbe mai detto), segno che l’idea alla base è solida e concreta. I motivi per cui questa volta funziona sono diversi. In primis la qualità delle immagini, testimonianza del dispiego di mezzi tecnologici adeguati. In secondo luogo, l’interazione tra ciò che viene proiettato e ciò che accade in scena. I due livelli non sono avulsi l’uno all’altro; le animazioni dello sfondo diventano reali sul palco creando comunicazione tra i due piani.
Le luci di Davide Naldi, infine, legano la bidimensionalità del fondale con la profondità della scena, contribuendo alla riuscita degli effetti scenici (come nel caso degli incendi). Bello! Gli atti si chiudono con quadri statici che immortalano gli eventi. Allo spegnersi dell’ultima nota, tutti gli attori restano immobili in una coreografia così suggestiva da richiamare alla mente i dipinti di Delacroix.
Il Coro diretto da Gea Garatti Ansini, oltre a riempire la scena nelle diapositive statiche di fine atto, sublima con il canto la forza musicale del messaggio. Potente.
Se questo allestimento funziona, il regista fiorentino ne è il principale artefice. Più di cento opere dirette non sono mai un caso.
Compartecipi del successo sono i cantanti. Abbiamo visto così spesso Gregory Kunde quest’anno che potremmo correre il rischio di non sorprenderci più al cospetto dell’estensione vocale rispetto alle sessantotto candeline. Al solito, i primi recitativi sembrano un po’ opachi e sghembi e laddove potrebbe sorgere qualche dubbio sullo stato di forma del tenore, le prime arie cancellano ogni interrogativo. Già dall’ Un dì all’azzurro spazio si percepisce che l’americano è lo stesso di sempre. Il Sì, fui soldato che segue o il bel dì di maggio sono solo conferme che esaltano il pubblico. I lunghi applausi alla fine sanciscono l’ennesimo successo.
Al suo fianco una meravigliosa Erika Grimaldi, dalla voce timbricamente complessa, che non indulge mai a vibrati troppo scenici o stucchevoli giochi pirotecnici. La gentilezza di emissione non è aiutata dalla prova troppo muscolare dell’orchestra che parrebbe – a tratti – soverchiarla. In definitiva, anche se non ha vita facile, non si fa mai dispiacere. Forse avrebbe meritato qualche applauso in più al commiato finale.  Da segnalare anche l’ombroso Gèrard di Roberto Frontali.
E qui arrivano i pochi “ma”. C’era molta attesa per la direzione di Oksana Liniv, per la prima volta in buca per un’opera al Comunale di Bologna. Di certo la direttrice ucraina ha l’orchestra in pugno – ed è un bene- con una direzione decisa e puntuale.

Qualche avversativo – però- fa ritenere che nonostante la strada sia giusta, il percorso intrapreso è solo agli inizi. Nel caso specifico, una rilettura piuttosto retorica, mista ad una dinamica orchestrale troppo netta hanno contribuito ad una non piena valorizzazione dei cantanti. Maddalena in primis. Da un lato è vero che l’orchestrazione molto ricca di Giordano richiede piglio, dall’altro è anche vero che è possibile modularla con una più sensibile lettura dei momenti. Nel complesso il risultato è più che positivo.
Andrea Chènier è un titolo non troppo presente nei programmi dei grandi teatri d’opera, eppure è una manna dal cielo perché ci permette di riscoprire l’uomo, al di là di una certa retorica storica propria di tanta produzione melodrammatica.
Forse al cospetto delle grandi cose diventiamo potenzialmente tutti cattivi e gli ideali sono lenti scure dietro cui nascondere lo sguardo; come fa Gèrard mentre manda a morte Andrea.  
Dismessi gli ideali, è il tratto più umano dei personaggi a darci speranza.Perché è lo Gèrard-uomo che si pente, non il rivoluzionario.

Ciro Scannapieco

Foto Andrea Ranzi

Stampa
Share.

About Author

Comments are closed.