Il Cuarteto Latinoamericano al Bologna Modern

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Non si pensi al Bologna Modern semplicisticamente come una costola della stagione concertistica della Fondazione Musica Insieme.
Il Festival per le musiche contemporanee è una stagione nella stagione, una sorta di angolino nascosto ed esclusivo a cui accedere per regalarsi un raffinato sollievo musicale in mezzo alla settimana.
Abbandonata per un attimo l’ampia sala dell’auditorium Manzoni che ospita la stagione principale, ci si ritrova in una sorta di scatola magica qual è il meraviglioso Oratorio di San Filippo Neri.
Sarà per l’atmosfera raccolta che mette l’ascoltatore in connessione con i musicisti, per i meravigliosi giochi di luce che proiettano le ombre dei putti sulle pareti o per l’acustica raffinata ma, all’interno della struttura voluta dall’allora cardinale Lambertini, si è in un luogo avulso dal quotidiano che prepara l’animo ad un ascolto più profondo.

Esattamente così è andata lo scorso 10 Novembre.  Ad esibirsi il Cuarteto Latinoamericano, per la prima volta in terra felsinea. Non sono tante le formazioni cameristiche a poter vantare addirittura quaranta anni di carriera e ben due Latin Grammy.
Appare chiaro il lignaggio degli esecutori fin dalle prime battute del quartetto N17 di Héitor Villa-Lobos, brano ostico sotto molteplici punti di vista. L’approccio moderno e l’assenza di una melodia esposta che gravita salda attorno ad una tonalità nasconde insidie di ascolto.
Eppure, i musicisti rendono ogni difficoltà semplice e comprensibile, districandosi nei funambolici contrappunti con grande solidità.
L’ascolto non è mai faticoso e i quattro esprimono un legame profondo e spirituale con la musica suonata che trascende la mera ed eccellente esecuzione. I tre fratelli Bitran e Javier Montiel alla viola sono ambasciatori del continente americano, l’interpretazione ne giova ed il pubblico può gratificarsi con un ascolto autentico.

La seconda tappa del viaggio musicale nel ‘900 americano ci accompagna nelle struggenti battute dell’iconico Adagio di Samuel Barber, famoso anche per il frequente utilizzo cinematografico. Come dimenticare la straziante colonna sonora di Platoon diretto da Oliver Stone. Anche in questo caso la formazione messicana consegna al pubblico una perla. Se in Villa-Lobos era un discorso di mente a guidare l’arco, qui c’è il cuore. La forza lirica del messaggio musicale viene sostenuta dagli archi creando un climax di rara intensità. Emozionante.
Dopo due momenti forti, è il turno di tinte più tenui con una ninnananna. Lullaby, scritta da un giovanissimo George Gershwin, si basa su una semplice e graziosa melodia, sorretta da un arrangiamento di archi. Ha una struttura tripartita dove alla dolce linea cantabile dell’Adagio iniziale, si contrappone un interessante Andante centrale adornato di frasi sincopate e momenti virtuosistici. Un brano tutto sommato semplice ma ben posizionato all’interno del programma.
Dopo Brasile e Stati Uniti, si vola in Argentina con l’energetico Quartetto N1 di Alberto Ginastera. Ai bellissimi i pizzicati del vivacissimo iniziale, segue un movimento calmo che porta all’apoteosi dell’Allegramente rustico finale che rielabora temi popolari con il linguaggio classico.
Ciò che affascina di questo approccio latino al linguaggio classico è la libertà con cui si mischia il popolare con il colto o il sogno con la realtà, lasciando l’ascoltatore cullato da pulsioni antitetiche che convivono in una sorta di danza marziale. Quella del Cuarteto Latinoamericano, non è solo un’esecuzione empatica e ruffiana.
C’è anche tantissima tecnica, che i musicisti esprimono con grande perizia in ogni passaggio del difficile repertorio in scaletta. Al pubblico è piaciuto, tanto da richiedere ben due bis. 
Ad un immancabile Piazzolla segue un intrigante minuetto di Francisco Mignone.
Il concerto finisce così ma, a giudicare dagli applausi, se fosse stato per la platea ci sarebbe stato un numero indefinito di fuoriprogramma.
Mentre lasciamo la sala, volgiamo lo sguardo verso il proscenio, attratti dall’ombra del braccio di un puttino che si ingigantiva otticamente in una nicchia.
In fondo la musica è come la luce, trasfigura la realtà prima di fuggir via. Ma prima di spegnersi lascia impressa nella mente una suggestione, come l’ombra di una statua su un muro. Quando questo accade, la serata è andata bene.

Ciro Scannapieco

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