Beatrice Rana incanta Bologna

0

Un recital pianistico è quanto di più vicino possa esserci ad una sorta di rituale mistico.
In prima battuta per via del solo officiante che accentra e catalizza su di sé tutta l’attenzione e l’energia della platea. A quell’unico individuo, infatti, è affidato il compito di convogliare in suono la natura; forgiando l’aria in compressioni ed espansioni progressive. In secondo luogo, c’è tutto il misticismo del sacerdozio di chi amministra una sorta di forma sacramentale.
Ciò che viene suonato, a discapito delle singole date di composizione, appartiene al dominio dell’oggi, vive nell’immediato. Hic et nunc. Come – qui ed ora -c’è la capacità di emozionare, di accendere una scintilla nell’animo di chi ascolta. La stessa musica non avrebbe lo stesso impatto ascoltata altrove, in un altro momento; semplicemente perché non si tratterebbe della stessa musica.
Sembra un inganno linguistico di witgensteniana reminiscenza. Perché chiamare classica una musica che si rinnova nella sua sfuggevole mutevolezza interpretativa? Come se il termine classico fosse una sorta di arca perduta in cui racchiudere la magia dell’inspiegabile.
C’è chi, non amando questa definizione, ne ha coniato un’altra: musica esatta. Adducendo come spiegazione la necessità di suonare in modo fedele tutte le note della partitura.
Ma, ammesso che esista e sia univoco, bisognerebbe conoscere quel metro di riferimento. Forse nemmeno lo stesso Chopin avrà suonato le sue creazioni ogni volta allo stesso modo.
Anzi, si potrebbero scrivere pagine e pagine sull’attitudine ottocentesca dei solisti all’improvvisazione. Come quella volta che il buon Fryderyk, letteralmente imbufalito, chiuse la tastiera all’amico Listz, reo di aver personalizzato troppo una sua sonata.
Qualche cronista dell’epoca accenna che l’unica vera colpa dell’ungherese fosse stata di averla reinventata troppo bene.
Lunedì 21 Novembre, presso l’auditorium Manzoni di Bologna, la Fondazione Musica Insieme ha chiamato  Beatrice Rana a dire messa. Risparmiamo al lettore la presentazione dell’artista per evitare di trascendere nel solito qualunquismo pop, certi che chi ha valicato le colonne d’ercole dei 280 caratteri preferisca la performance al gossip. Il programma scelto, per varietà e lunghezza, è pieno di insidie.
I 4 preludi e i 2 studi di Alexandr Skrjabin con cui la pianista apre l’esibizione sono una pericolosa buccia di banana. Nonostante il compositore abbia scritto opere monumentali per orchestra, ha sempre intimamente preferito i componimenti brevi. Appresa la lezione chopiniana, infatti, sono circa novanta i brani composti in un quarto di secolo.  Ognuno dei preludi è un piccolo scrigno che racchiude la ricostruzione di un mondo in miniatura fatto di sfuggenti impressioni che lasciano il posto ad immagini.  Al pianista si chiede di catturare questa febbrile intensità, distribuita in poche e veloci battute.
Rana ha il merito di immortalare il momento musicale per farlo esplodere oltre l’angusta gabbia del ristretto riscontro cronometrico. Le complesse tessiture armoniche e i passaggi virtuosistici non sono mai fini a se stessi e creano un climax in cui convergono foschi episodi lirici. L’interprete non solo non scivola nella trappola di un algido ipervituosismo ma, impressiona la musica in immagini, come sei scatti di una polaroid musicale.
Segue la Sonata n.2 in Si bemolle minore op. 35 di Fryderyk Chopin, forse la più famosa tra quelle composte dall’autore polacco per via della celebre marcia funebre. E ‘una partitura i cui quattro movimenti esprimono umori musicali molto diversi. Se Schumann asseriva che Chopin avesse “legato assieme quattro dei suoi figli più vivaci”, l’interpretazione è quasi un rompicapo per il pianista che dovrà eseguirla. Non fa eccezione questa proposizione bolognese. I movimenti più veloci sono proposti con tempo sostenuto ed una dinamica che non indulge al sentimentalismo. Eppure, quando pensiamo di esserci sintonizzati sulla radio emotiva dell’artista, arriva una inaspettata e dilatata Marcia Funebre. Il movimento, proposto con estenuante bellezza e ripida intensità, apre voragini lì dove lo scherzo aveva cucito assieme musica per tutta l’estensione della tastiera. Colpiti e affondati.
Tempo di una breve pausa e si passa alla monumentale Hammerklavier di Ludwig Van Beethoven. Questa sonata non solo rappresenta la vetta più alta per quanto riguarda la produzione musicale per piano solo del compositore tedesco, ma un assoluto scoglio per ogni interprete. Circa quaranta minuti di musica in cui si annidano momenti tecnici ad un vasto spettro espressivo che culmina nell’Adagio che – non a caso – è annotato con un “Appassionato e con molto sentimento”. Beatrice Rana brilla per virtuosismo e purezza del suono, senza perdere mai il filo proto-romantico della musica. Bellissimo il finale che parte con un accordo meraviglioso che preannuncia la fuga che chiude il brano.
Nella riproposizione delle solite, vecchie formule, anche stavolta il miracolo è compiuto. In questa transustanziazione musicale, cento anni di musica tornano a risuonare di originale e viva freschezza. Come se tutte quelle note non fossero mai esistite prima. Tutto è nuovo e quel che abbiamo già conosciuto, stavolta non lo (ri)conosciamo più. Non perché l’interpretazione abbia stravolto i brani, anzi. La musica è “esatta” ed interpretata con il dovuto rigore. L’emozione, però, è inedita. Abbiamo ascoltato tanta vecchia, nuova musica.  Tutto merito del pianista, andate in pace.

Ciro Scannapieco

Stampa
Share.

About Author

Comments are closed.