Ascensori e funicolari sociali per la Napoli che sogno

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Coesistono, e a ben analizzare, pacificamente o quasi, due opposte narrazioni della qualità di vita a Napoli; d’altra parte se una città degli estremi esiste al mondo, questa è quella fondata da Partenope.
Da una parte, e non senza qualche evidente interesse editoriale, si racconta di una Gomorra estesa e insinuata in ogni mitocondrio della metropoli, dall’altro, con atteggiamento elitario e nostalgico, proprio di chi Napoli ha deciso di abbandonare al primo tornare in positivo del proprio conto corrente, si esaltano della città la storia dalla mitologia fino ai fasti del ‘700 musicale e ai tanti primati civili e tecnologici, come se tutto ciò bastasse a compensare ogni inefficienza e illegalità ai piedi del Vesuvio grazie o a dispetto  di alberi, uova e corni.
Il bello non solo non è in grado di salvare il mondo, e Napoli non costituisce eccezione, quasi fosse un’arca di Noè , per contro la bellezza può essere ridotta a merce di traffici non sempre leciti e di specchio per turisti-allodole da scippare o truffare.
Come non applaudire, anche quando non è sul podio, il Riccardo Muti paladino di Napoli, quando si dichiara stanco di oleografie negative popolate da narcotrafficanti e da giovani semianalfabeti al soldo e vittime di boss della camorra?
Basterebbe aggirarsi per la “Silicon Valley” dell’Academy Apple di San Giovanni a Teduccio, come nelle aule del Politecnico o più ancora in quelle che evocano gloriosa storia del Conservatorio San Pietro a Majella o dell’Accademia di Belle Arti, per rendersi conto di una qualità di giovani intelletti che non ha timori di confronto al mondo.
Il focus della mia riflessione, che non rivendico sia originale, è proprio nella dualità di quello che si chiama con termini anglofoni “storytelling”, individuando in essa un mero argomento di ulteriore, sterile contrapposizione che non gioverebbe né alla chiarezza delle analisi né, tanto meno, all’individuazione di soluzioni efficaci.
Tutte le metropoli del mondo sono costrette a fare i conti con una microcriminalità diffusa che è, anche, figlia di disomogeneità sociali ed economiche di cui il capitalismo ha assoluta necessità per alimentare i mercati delle merci e della forza-lavoro, che per particolare che si voglia ritenere con un sussulto di umanesimo, merce è anch’essa.
Dunque una soluzione adottata in alcune città occidentali è quella di blindare i quartieri ricchi cosicché chi abbia voce e mezzi per raccontare possa riferire delle ordinate, pulite, e sicure strade intorno al proprio attico panoramico.
Napoli non si è piegata a questa scelta ipocrita e classista e, animata da spirito democratico che è pari alla sua creatività, salvo limitate eccezioni, si è data una distribuzione sull’area metropolitana ricca di diversità di censo e di cultura; questo aspetto, che costituisce un vanto per chiunque non sposi tesi classiste e “chiattille”, rende complessa l’analisi sociologica della vita urbana, ma non per questo può giustificare giudizi sommari estremi in una direzione o in un’altra.
Mi piace concludere questa riflessione auspicando un riconoscimento UNESCO, dopo quello della pizza, del brand napoletano della sociodiversità creativa, sana, vivace e soprattutto dotata, così come è il trasporto cittadino, di tanti ascensori e funicolari per le ascese e le discese sociali, obliterando un biglietto meritocratico.

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