Nabucco: il trionfo di un’opera iniziata con un sogno

0
  • L’impresario Bartolomeo Merelli, in seguito e nonostante il clamoroso insuccesso che l’opera buffa “Un giorno di regno” incontrò nel 1840, volle fortemente che il giovane Verdi si cimentasse su un’opera di contenuto serio.
    E fu così che Nabucodonosor Ebbe una fortunatissima prima scaligera il 9 marzo del 1842. Solo in seguito alla rappresentazione del settembre 1844 al teatro San Giacomo di Corfù e il nome del protagonista e il titolo divennero Nabucco e definitivamente.

    Al di là del fenomeno di mitopoiesi che il celeberrimo coro “Va pensiero” incontrerà, bisogna riconoscere alla pagina in questione, che i commentatori si premurarono di precisare, ma bene a torto, parafrasi del Salmo Super flumina Babylonis, n. 136 della Vulgata, una qualche predestinazione. Infatti, come l’autore stesso raccontò nel 1879 all’editore Giulio Ricordi: “Mi rincasai e con un gesto quasi violento, gettai il manoscritto sul tavolo, fermandomici ritto in piedi davanti. Il fascicolo cadendo sul tavolo stesso si era aperto: senza saper come, I miei occhi fissano la pagina che stava me innanzi, e mi si affaccia questo verso: “Va, pensiero, sull’ali dorate”. Scorro i versi seguenti e ne ricevo una grande impressione, tanto più che erano quasi una parafrasi della Bibbia, della cui lettura mi dilettavo sempre”. Il compositore prosegue con il racconto di una notte insonne dedicata alla lettura del libretto di Solera che forzatamente Merelli gli aveva messo in tasca.
    Ipotesto, Oltre alle sacre scritture furono l’omonimo dramma di Anicet-Bourgeois e Francis Cornu E il pure omonimo balletto che il coreografo Cortesi ne aveva derivato per la Scala. Modello ne costituì anche il melodramma mitologico sacro offerto dal Rossini di Moïse e Pharaon e da Le Siege de Corinthe.
    L’autore rimase dunque folgorato dalla suggestione puramente lirica ed evocativa delle quattro quartine, a tal punto che è L’elemento biblico che metterà a presupposto del tutto. L’Antico Testamento rappresentava Per l’autore un mondo di figure, di eventi, di situazioni, che dalla collocazione nel libro per eccellenza ricavavano una capacità unica di far risuonare i loro significati ingigantiti nell’anima popolare perciò nella sua. “Popolare”: in che senso adoperiamo questa parola per Verdi? Nel senso che i suoi dati espressivi sono tutti registrati su minimo comune denominatore che sorge, socialmente parlando, dal basso: in quel Quarto Stato che intende passioni e concetti etici in accezioni nette, non mai ambigue e per i borghesi (…) di questo ethos l’autore scorge solo i lati positivi” Fedele D’amico
    Quella miscela di sensibilità che portò Antonio Gramsci a parlare di “primato italiano del melodramma che, in un certo senso, è il romanzo popolare musicale”, individuando nel ruolo dell’Opera un compito di supplenza culturale e sociale.
    Ed ecco che il predominio del medium corale nel primo cronologicamente dei capolavori verdiani si chiarisce alla luce della considerazione di Mario Apollonio: la funzione del coro di Verdi è di istituire un “giudizio sopra ciascuna vicenda, chiamandola al cospetto del tribunale popolare”. Tardiva sarà l’acquisizione della patente e patriottica dell’opera del sovrano assiro e del popolo ebraico presso: quello che probabilmente è considerato il più risorgimentali sta dei melodrammi verdiani, in realtà è stato il terzo grande titolo di un Verdi ancora giovane, in cerca di affermazione e non è ancora sufficientemente accreditato nella considerazione del pubblico e della critica, per esprimersi con accenti rivoluzionari. Non a caso la partitura ricava una dedica singolarmente offerta a Maria Adelaide d’Austria.
    Già Mazzini riconosceva come le tematiche verdiani avessero dimensione europea, benché alimentate da orgogli risorgimentalisti. Troviamo infatti nel Nabucco un esempio di come, riportando vibrazioni orgogli di popoli, Solera e Verdi sappiano dare vita e Valenza a una vicenda fortemente identitaria per il popolo di Israele trasformandola, senza snaturarla, in una archetipica leggenda di liberazione e di pace tra i popoli. E questo è anche il messaggio che la regia di Jean-Paul Scarpitta ha realizzato in una produzione del 2011 diretta dal m. Muti per il Teatro dell’Opera di Roma e andata in scena per celebrare il centocinquantenario dell’Unità d’Italia. La rappresentazione di domenica 14 ottobre al Massimo napoletano ha registrato il tutto esaurito ne è stata appunto una felice riproposizione affidata alla bacchetta del giovane direttore irpino Francesco Ivan Ciampa, reduce dall’inaugurazione del festival dell’arena di Verona, per la prima volta al San Carlo.
    “Non bisogna mettere in scena il dramma stesso, ma il riflesso che esso ha nella coscienza. La messa in scena vuole essere quindi una riflessione sulla storia più che una rappresentazione”, dice il regista a proposito della sua prospettiva assolutamente laica. Ed ecco dunque rappresentato l’archetipico conflitto di cui abbiamo detto, in una dimensione distante dal tempo e dallo spazio, complice la bidimensionalità del l’allestimento che pare farlo emergere come dalle pagine di un libro. Sui fondali che ricordano le pagine della Bibbia illustrate da Gustave Dorè ovvero mura d’oro satinato rievocativo di antichi fasti, si stagliano i personaggi e pochi elementi tridimensionali, come in un pop up. Contro un cielo plumbeo, alle spalle le vestigia abbandonate di Babilonia, un paesaggio brullo e desolato ci restituisce tutta la solitudine del re assiro. Il quadrato scenico è è sgombero dal superfluo e l’atmosfera sospesa, l’ora del riscatto è vicina e scandita solo dal lento e lieve depositarsi al suolo come in una clessidra al centro della scena di pulviscolo bianco, mentre il canto degli schiavi pare provenire dalle viscere della terra. Giovanni Meoni nel ruolo del titolo, leader carismatico, drammaturgicamente in primissimo piano è apparso a tratti affaticato. Pur tuttavia fraseggio appropriato e disinvoltura scenica gli hanno consentito di condurre a termine una prova di tutto rispetto. L’interpretazione confinata in proscenio dell’aria “Dio di Giuda”, che segna la conversione del suo personaggio, notevole per intensità e pathos, sarebbe bastata da sola a riscattare l’intera sua performance. L’Ismaele di Antonello Palombi è stato granitico e inoppugnabile nella resa, straordinari volumi, padronanza dello strumento e della scena. Rafal Siwek nei panni del gran pontefice ha messo in luce colore di basso non profondo, buona proiezione della voce, ha sofferto lievemente sulla tessitura grave, nella parte in cui non procede per grado congiunto. La schiava Abigaille é personaggio assai complesso: altero, ambizioso, sensuale, epico, subdolo. Ruolo per vari aspetti nuovo rispetto alle eroine del bel canto, la sua novità sta in “violenze vocali” spesso assai spinte che ne mettono in luce la personalità complessa, una sorte crudele di figlia e di donna innamorata e non ricambiata, e che ne costituiscono sicuramente la cifra più originale. Così il soprano Susanna Branchini si è cimentata con i frequentissimi salti di ottava e coloratura di esplosioni iraconde, dove il timbro aspro e tagliente tipico della vocalità è emerso nitidamente. Il canto si è ammorbidito nel momento di ripiegamento amoroso, vocalizzi di tipo belcantistico che la cantante ha intonato con grazia, mettendo in luce rotondità e versatilità espressiva. Delicata, emissione morbida e rotonda, colore da mezzosoprano chiaro, tipicamente indicato da Verdi per il ruolo in questione, la Fenena di Rossana Rinaldi. A completare il cast l’ottimo Gianluca Breda nei panni del Gran Sacerdote di Belo; Antonello Ceron, Abdallo; Fulvia Mastrobuono, Anna. L’orchestra, parsa in serata di grazia, ha assecondato il gesto elegante e sempre intelleggibile del direttore Ciampa che ha potuto così lasciarsi andare al suo “sogno ad occhi bene aperti sulla partitura”. Richiesto a gran voce e concesso il consueto bis del “Va pensiero sull’ali dorate” a conclusione del terzo quadro.
    Il coro pare essersi giovato delle cure del maestro Gea Garatti Ansini, ordinato in scena ha reso bene le sfumature, i ritenuti e le emissioni in pianissimo. Evocativi i costumi di Maurizio Millenotti. Nostalgiche soffuse le atmosfere del light designer Urs Schönebaum.
    La lettura assolutamente laica che Scarpitta dà di questo oratorio dal profilo epico e che emerge dalla volontà di non rappresentare in scena manifestazioni del divino e dall’obiettività eroica di cui si carica il ruolo del condottiero e capo spirituale Zaccaria, consente ad un messaggio implicito di giungere a noi attraverso i secoli. Popolo e politica sono una forza rivoluzionaria destinata ad autoalimentarsi e a trovare nuovi modi di espressione e di lotta in una dicotomia non chiarita tra individuo e collettività, a presidio della libertà come eredità che si tramanda attraverso le generazioni. Nabucco è opera a favore di tolleranza ed integrazione.

Mariapaola Meo

Stampa
Share.

About Author

Comments are closed.