Die Walküre secondo l’estetica di libertà di Tiezzi e Paolini

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L’anello dei Nibelunghi (Der Ring des Nibelungen) è un ciclo di quattro drammi musicali (tetralogia) di Richard Wagner, che costituiscono un continuum narrativo che si svolge nell’arco di un prologo e tre “giornate”: L’oro del Reno (prologo), La Valchiria (prima giornata), Sigfrido (seconda giornata), l crepuscolo degli dèi (terza giornata).
Die Walküre, in scena al Teatro San Carlo dall’ 11 maggio, attraverso il viaggio di Wotan alla scoperta di sé e la sua resa finale, la straordinaria rappresentazione del suo declino interiore e l’incipiente crepuscolo degli dèi, ci mostra Wagner nella sua forma più radicale e più lirica.
Nel clima rivoluzionario del 1848, la morte di Sigfrido (Siegfrieds Tod) avrebbe dovuto rappresentare la liberazione dell’umanità, ad opera di un redentore, dalla maledizione dell’oro.
Secondo Guido Salvetti, il concepimento delle tre opere poste da Wagner a premessa, nasce più che dall’esigenza di spiegarne gli antefatti, da un forte indebolimento, negli anni del riflusso post 1848, delle ragioni filosofiche e politiche che lo avevano spinto verso il messaggio rivoluzionario congenuto nell’opera in questione; tale indebolimento apre le porte alla facoltà di dar vita artisticamente determinata ad affascinanti immagini mitiche, a grandiose prospettive cosmologiche, a personaggi di complessa e ricca psicolo
gia. L’autore già negli anni di Dresda desiderava racconti fantastici, liberi dagli apparati delle grandi opere. Qui giunsero dunque a naufragio i programmi e gli schemi ideologici del rivoluzionario redentore Wagner. Allo stesso modo la grandezza di Wotan consiste nel volere ciò che è necessario, cioè il proprio annientamento lasciando il posto a Sigfrido. L’espressione estatica che Wagner ritrovò con autentica esaltazione in Schopenauer, l’accettazione del dolore, la mortificazione della volontà di vivere, determinò in profondità la soluzione musicale dei grandi momenti che chiameremo concettuali e filosofici di quel dramma. La grandezza di Wagner fu aver trovato la via puramente musicale verso l’esperienza del negativo, del male e del dolore: rarefazione della grande fiumana sinfonica, timbri crepuscolari e bui come oscuri presagi, ritmi segmentati, dispersione del canto in frammentari lamenti.
Nella Stagione 2018/19, a quasi quindici anni dall’ultima rappresentazione, il Teatro di San Carlo ripropone il leggendario allestimento, sospeso tra teatro e immagine, firmato Tiezzi/Paolini con cui fu insignito del Premio Abbiati nel 2006.
«Il plot di quest’opera si rivela debitore alla tragedia classica, in special modo euripidea, ma trasformata in teatro borghese: l’individuo della seconda metà dell’Ottocento inizia la sua ricerca identitaria attraverso l’incontro con le scienze positive come la psicanalisi. Ma la decadenza in rovina di una famiglia ha un cantore speciale nel mondo tedesco Thomas Mann. Ho utilizzato Buddenbrook come una lente attraverso cui osservare la vicenda wagneriana e gettare uno sguardo sulla crisi di un’epoca: la rivolta dei figli, il decadere dei valori tradizionali, l’insorgere di un individualismo già nietzschiano» spiega il registra Federico Tiezzi.
La regia fa riferimento ad alcuni parametri di irrinunciabile geometria e specularità: raddoppi di movimenti, di azioni, di gesti. I personaggi si specchiano l’uno nell’altro, sono sempre in relazione, abitano lo spazio come fossero emanazione, figure della mente di Wotan. Siegmund e Sieglinde, Wotan e Brünnhilde, Wotan e Fricka, Siegmund e Brünnhilde: una scacchiera di destini che si incrociano, si fanno e disfano. L’aura divina intorno a Wotan risulta sfumata e il personaggio è umanizzato sottolineandone l’aspetto di capo famiglia, quasi un Alfred Krupp, un industriale che vede entrare in crisi e morire il suo mondo, che ha coscienza di questa fine, coscienza del cambiamento.
Figurativamente l’opera si presenta divisa in tre quadri: il primo atto corrisponde alla pittura, dunque bidimensionalità dell’azione e del movimento scenico. Uno specchio posato su assi dà l’idea di un cavalletto con una tela e al centro la spada piantata in un ritratto di famiglia.
Il secondo atto è invece ispirato alla scultura, tridimensionalità e dunque “tutto tondo”. Nel terzo atto, omaggio all’architettura: i personaggi prendono possesso dello spazio e vi si incorporano, come Brünnhilde, una Arianna dei Musei Vaticani, sul finale. «Per quanto riguarda il terzo atto in particolare ho voluto trasformare il palcoscenico in una sala di anatomia dove si dissezione il cadavere di un eroe e ho chiesto a Paolini di far esplodere una delle sue famose statue classiche nello spazio della musica», racconta ancora il regista.
L’atmosfera è quella di un archivio, di una biblioteca di un museo, dove traspare il risuona il peso del tempo.
«La scena è l’eco, il riflesso di qualcosa che è già stato: l’azione non avviene in tempo reale ma attraverso la memoria della sua rappresentazione» spiega lo scenografo Giulio Paolini.
L’impianto scenografico é geometrico, vuoto, trasparente, ma dotato di campioni o reperti dei luoghi evocati (fondali, cornici, basamenti, ricostruzioni, modelli). I costumi di Giovanna Buzzi sono di base ottocentesca ed evocano i dati originari della storia in alcuni accessori, insomma costumi e non abiti, come in una rievocazione storica, ispirati ai più diversi campi pittorici.
Una struttura metallica modulare, presente in tutti i quadri, accoglie gli oggetti e gli arredi depositati all’interno: i tre livelli corrispondono ai tre atti.
Scene prevalentemente di interni, elementi di una natura morta: il silenzio e la fissità delle immagini sembrano contrastare, per sottrazione, il volume impetuosa della musica; una luce da camera, una visione lenta, immobile sospende a mezz’aria l’irruzione crescente dei suoni.
«Paolini mostra coraggio nel denudare la saga wagneriana di ogni orpello, facendo così leva su una forte carica simbolica» osserva, a ragion, Cesare De Seta. E continua: «Tutto si risolve in un abaco portante in scena per tutti e tre gli atti: esso è costituito da un telaio quadrato in struttura tubolare di 7,5 m per lato, scandito in tre parti di uguale al lato secondo i sacri principi dell’antica e divina prospettiva». Al primo atto l’albero e la spada si pongono come metafora dell’autore che dà tutto se stesso nell’affanno di possedere la chiave dell’opera (Notung). Nella scena prima del secondo atto delle meteoriti piovono dal cielo su di un cippo antico a rappresentare le rocce montane in cui la vicenda si svolge ma anche una sorta di bombardamento della casa di Wotan.
Il fondale nella scena quinta del secondo atto, disposto dinanzi al traliccio, raffigura in un cerchio Venere Saturno, altri astri e la nostra piccola terra.
La prima, in scena sabato 11 maggio alle ore 19, ha visto il teatro semigremito e la durata di 4,30 non ha scoraggiato i calorosissimi applausi finali. La più che giunonica Iréne Theorin nei panni della protagonista ha ricoperto il ruolo, invero assai impegnativo, con grande efficacia. Il soprano di ottimi volumi e vocalità brunita ma limpida ha sostenuto gli ampi cantabili con preparazione e i recitati con convinzione interpretativa. Il Siegmund di Robert Dean Smith un po’ appesantito nella forma fisica per un ruolo eroico ha dato buona prova di sè: il timbro lirico e l’ottima recitazione ne sono risultati valorizzati. La delicatezza di Sieglinde ha avuto la voce di Manuela Uhl, grande equilibrio nell’emissione e la capacità di giocare con i colori hanno conferito al personaggio duttilità ed emotività. Il basso chiaro Egils Silins si è cimentato con il divino Wotan, il contrasto emozionale interiore che il personaggio vive lungo lo snodarsi della vicenda non gli ha mai fatto perdere quel contegno proprio di una divinità, nonostante la consapevolezza dell’ineluttabile declino. La Fricka interpretata da Ekaterina Gubanova si farà ricordare per la precisione tecnica e di fraseggio che l’esperto mezzosoprano russo ha sfoggiati. Buona la performance del deuteragonista Hunding portato in scena dal basso Liang Li, egli ne ha saputo incarnare i più torbidi aspetti. A completare il cast le Valchirie: Raffaela Lintl, Pia-Marie Nilsson, Ursula Hesse von den Steinen, Julia Gertseva, Robyn Allegra Parton, Ivonne Fuchs, Niina Keitel, Alexandra Ionis. Sul podio l’esperienza e la precisione dell’infaticabile Juraj Valčuha alla guida dell’orchestra del Massimo napoletano, parsa in serata di grazia. Luci di Gianni Pollini.

Mariapaola Meo

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