Cavalleria rusticana e il verismo in musica

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“Cavalleria Rusticana” , prima esecuzione al Teatro Costanzi di Roma il 17 maggio 1890, è considerata la prima opera “verista” italiana e, se pensiamo che “Carmen” di Bizet, di qualche anno precedente, è un’opera in lingua francese ambientata in Spagna  ci sentiamo autorizzati ad affermare che “Cavalleria” sia il primo esempio di melodramma verista che attinga alla cultura e alla tradizione di una nazione,  sia musicalmente che letterariamente.
Dal positivismo degli anni centrali del XIX secolo mosse, in Francia, il naturalismo e, qualche anno dopo, in Italia, il verismo.
Benché le due correnti condividano l’approccio narrativo ricco di riferimenti a situazioni della vita quotidiana e il linguaggio attinga a espressioni popolari, gergali e dialettali, il naturalismo transalpino, soprattutto con Emile Zòla, privilegia ambientazioni piccolo-borghesi in interni cittadini, mentre Verga, in Italia, sceglie atmosfere contadine del profondo meridione con frequenti scene all’aperto con moltitudini di personaggi in funzione corale.
Sono
i decenni in cui la cosiddetta “questione meridionale” si va configurando, mentre solo nell’ultimo scampolo di secolo, con Agostino De Pretis, l’ Italia si dà un governo se non progressista, almeno liberale e aperto al sociale. Questo è il contesto socio-politico in cui le novelle di Giovanni Verga vengono composte.
Probabilmente Mascagni aveva conosciuto “Cavalleria” nella fortunata versione teatrale che la divina Eleonora Duse, a partire dal 1884, aveva portato al successo, meno probabile che il musicista avesse a quel tempo già letto “Vita dei campi”.
La novella di Verga , ormai dramma teatrale,  era giunta a Livorno, città natale di Mascagni, per il tramite del commediografo semidilettante Giannino Salvestri, che si riprometteva di ricavarne un libretto per un melodramma da offrire a Giacomo Puccini e, per tanto, aveva inoltrato richiesta al Verga perché gli concedesse la licenza di utilizzare il testo letterario.
Dopo alcuni anni, durante i quali né libretto né quindi melodramma furono realizzati, per una coincidenza,  un altro livornese, Giovanni Targioni-Tozzetti, dopo aver assistito ad una rappresentazione teatrale del dramma, propone al giovane musicista concittadino, di comporre un melodramma su “Cavalleria rusticana” e ai due si affianca il Menasci con l’incarico di “limare “ i versi.
Quest’ultimo doveva avere l’utensile spuntato quando si era lasciato sfuggire un inno  dalla evidente incoerenza teologica:


Inneggiam, Il Signor non è morto
Ei fulgente Ha dischiuso l’avel,/Inneggiam Al Signore risorto
Oggi asceso Alla gloria del Ciel!

In barba ai Vangeli e al valore che la morte del Cristo e la Resurrezione assumono per tutti i cristiani.
Ci perdonino i due autori se ci permettiamo di notare che, senza rinunciare alla musicalità del verso, di certo prioritaria per Mascagni, i due poeti avrebbero potuto sostituire il quasi blasfemo verso con  un teologically correct:  “Il Signor per noi morto”.
Chiesto il permesso a Verga, che nel frattempo lo aveva concesso anche a Gastaldon, la gestazione dell’opera è rapida, tant’è che Mascagni (o meglio sua moglie Lina) può spedire la partitura perché partecipi, con esito vittorioso, al concorso per un melodramma in un atto, bandito dall’editore Sonzogno.
Tanto in Verga quanto in Mascagni si percepisce distintamente un furore retorico per la vita contadina condito di amore per la natura e per i sentimenti vividi, immersi in una calda religiosità; uno sfondo molto lontano da un’immagine alla Pellizza da Volpedo e soprattutto privo di riferimenti alle nascenti lotte contadine e operaie organizzate dalle “leghe”, non quelle pontidiane,  che di lì a poco avrebbero dato vita ai sindacati e ai movimenti e partiti socialisti e operai.
Mascagni è figlio della piccola borghesia mercantile toscana e la sua “emigrazione” nel cuore della Puglia contadina (Cerignola) ha quasi il sapore della fuga da una società del centro Italia in cui si affacciano i primi conflitti di classe, Verga, viceversa,  preferisce descrivere la Sicilia contadina dai lussuosi salotti milanesi.
Una collateralità servile al regime fascista farà il resto e la morte dell’autore, sopraggiunta  in quell’epocale 1945 in un lussuoso Hotel di Roma, dove aveva trascorso gli ultimi decenni di vita, solo in parte risparmierà al musicista livornese, l’ostracismo della nuova classe intellettuale antifascista che quasi  ne  metterà al bando le opere per tutti gli anni ’50.
La musica del talentuoso ma indisciplinato compositore è in assoluta continuità con la tradizione romantica, del tutto tonale e debitrice nei confronti di melodie e stilemi popolari: sono caratteristiche che rappresentano i limiti e il fascino di un’opera che nel breve volgere di un’ora, rappresenta un ritratto di una Sicilia arretrata e bigotta disposta  a ritenere il delitto d’onore nell’ordine naturale delle relazioni umane.
Verdi (e Shakespeare) con Otello aveva voluto indurre l’orrore per un sentimento forse inevitabile, ma sicuramente ignobile nelle conseguenze più violente, come la gelosia;  il verismo di Verga e Mascagni, se  ci commuove per il dolore di Mamma Lucia per la morte verso la quale vede avviarsi Turiddu, tende a sospendere il giudizio sulla vendetta violenta e sul farsi “giustizia” da sé.
In un giorno di Pasqua in cui la Cristianità celebra il trionfo della vita sulla morte, gli uomini si fanno giustizia a prezzo della vita e non vi è traccia di condanna sociale per un crimine che, lungi dal restituire “onore” sottrae dignità all’amore, coniugale o adultero che esso sia.
Su tutto, ad aggravare il quadro di degrado, una madre in lutto, che alle edipicità irrisolte sovrappone un senso di ineluttabilità  che fa di un popolo oppresso, sfruttato e vilipeso, una moltitudine di “mammoni”, piagnoni paladini dell’onore maschile, e di vedove e mamme in lutto, tutti acquiescenti e votati alla subalternità a poteri illeciti e sanguinari e chissà a quali futuri despoti.
La trama, in breve narra di una vicenda che in unità aristotelica si svolge nella giornata di Pasqua nella Sicilia di fine XIX secolo.
Turiddu, un contadino, che aveva sedotto Santuzza prima di partire soldato, è l’amante di Lola, una appariscente donna che, durante l’assenza di Turiddu, è andata  in sposa al carrettiere  Alfio.
Subito dopo il preludio strumentale Turiddu intona una canzone in forma di siciliana:

O Lola ch’hai di latti la cammisa
Si bianca e russa comu la cirasa,
Quannu t’affacci fai la vucca a risa,
Biato cui ti dà lu primu vasu!
‘Ntra la porta tua lu sangu è sparsu,
E nun me mporta si ce muoru accisu…
E s’iddu muoru e vaju mparadisu
Si nun ce truovo a ttia, mancu ce trasu.

L’ultimo a venire a conoscenza degli adulteri  è sempre il marito tradito: Alfio entra in scena cantando con entusiasmo i privilegi del proprio mestiere (“O che bel mestiere”). Mentre qui è là si leva qualche sorrisetto ironico dei giovani del paese, circa la fedeltà di Lola.
Santuzza, sopraffatta dalla gelosia e ferita nell’orgoglio, rivela ad Alfio la relazione tra Turiddu e Lola, mentre il paese intero si appresta alle solenni celebrazioni della Pasqua.
Dopo un brindisi provocatorio, Turiddu e Alfio si scontrano e si sfidano a duello “rusticano” al coltello.
Un accorato saluto a Mamma Lucia con la raccomandazione di “fare da madre a Santa”, precede  l’epilogo tragico: Alfio uccide Turiddu in un rapidissimo duello armato di pugnale, come se questi quasi non si opponesse ad una fine che sa di espiazione, mentre  una donna grida annunciando :”Hanno ammazzato compare Turiddu!”.
A distanza di oltre un secolo le melodie di Mascagni vivono anche di vita propria in recital, oltre che nei programmi si studio e lo stupendo Intermezzo non di rado viene proposto in concerti sinfonici.

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