Un Natale che ha nome poesia: La Bohème al Verdi di Salerno

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Sfidata la pioggia nel concerto natalizio del 22 dicembre a Piazza Portanova, il Teatro Municipale Giuseppe Verdi di Salerno ha porto gli auguri di Natale  al suo pubblico il successivo lunedì 23 con un titolo che è di per sé garanzia di sold out, figuriamoci se sul podio salga Daniel Oren e se protagonista è uno tra i più amati soprani italiani: parliamo di La Bohème di Puccini con Carmen Giannattasio nel ruolo della sventurata fioraia Mimì.
La messa in scena di Jean Daniel Lavalle che si è avvalsa, eccome, delle scene e dei costumi disegnati con gusto e grande senso delle profondità da Alfredo Troisi, se ha inventato poco, ha narrato molto, convincendo il pubblico da sold out e visibilmente ponendo a loro agio gli interpreti.
Carmen Giannattasio è un soprano intenso, dalla tecnica salda che  non cede a leziosità e che, potendo giovarsi di volumi ragguardevoli, rinuncia ai ppp, ma produce una dinamica sicurissima dal piano al fortissimo con omogeneità di emissione da manuale.
La Mimì di Carmen Giannattasio appare decisamente dominante l’adolescenziale e compìto Rodolfo del tenore Valentin Ditiuk, che, con voce chiarissima e sempre ben proiettata, del poeta bohèmien ha dato una versione di spensieratezza spezzata.
E se il “Sei mia!” è parso un “Se permettesse, la abbraccerei”, a dispetto di una passionalità efebica, la poesia dello squillo degli acuti di una incosciente “Speranza” e il dolore per una “Mimì che più non torni” hanno commosso più di uno spettatore.
Lodi senza riserve per il baritono Massimo Cavalletti che ha dato voce e presenza ad un Marcello dalla personalità matura, sostenuta da una vocalità brunita, ma estesa e, soprattutto, da una recitazione efficace.
Ormai non sorprende più, ma continua ad affascinare, non solo vocalmente, il soprano armeno Hasmik Torosyan che ha saputo proporre una Musetta consapevole del proprio ascendente sul cosiddetto e mai dimostrato sesso forte; difficile immaginarla “sola soletta per la via”, ma commovente scoprirla capace di sentimenti di autentica, tenera amicizia per Mimì, che il regista ci fa ritenere conosciuta nel bel mezzo della bellissima scena del Quartiere Latino.
Valida e spigliata la prestazione di Biagio Pizzuti in Schaunard, ruolo spesso trascurato, ma determinate in tutti i momenti clou della vicenda drammatica; ancorato al passato come la “vecchia zimarra” da sacrificare è stato il Colline reso da Carlo Striuli, mentre teatralmente brillantissimo è stato, ma come dubitarne, Angelo Nardinocchi nel doppio ruolo di Benoît  e  di Alcindoro.
E di Oren cosa dire? Innanzitutto, se un intero cast si esprime ad alti livelli dimostrando sicurezza e accuratezza espressiva, il merito va ascritto in larga misura al podio; il grande maestro israeliano, straordinario conduttore pucciniano, ha imposto dinamiche capaci di fare emergere il calore dei sentimenti nel gelo di un inverno parigino e di un morbo inesorabile che si annuncia fin dal primo quadro.
Confidando sulle qualità dei sei solisti principali, Oren è riuscito a rendere intelligibili e drammaturgicamente efficaci i dialoghi anche nelle scene di grande insieme.
Ben disposti sulla scena anche Salvatore Minopoli (Parpignol), Marino Orta (Sergente dei doganieri) e Maurizio Bove (Doganiere).
Momentaneamente affidato a Marco Faelli, Il Coro del Teatro dell’Opera di Salerno ha ben figurato, anche se all’apertura di sipario del secondo quadro, mostrarlo per un attimo in una disposizione propria della casualità di una folla di una piazzetta in un giorno di vigilia di Natale, avrebbe posto la ciliegina su una torta ben confezionata. Ben preparato anche il Coro di Voci Bianche diretto da Silvana Noschese.
Alfredo Troisi ha superato se stesso con scene e fondali che hanno mostrato la distanza della Parigi benestante, con alti edifici illuminati dal basso, metafora proprio di quel basso topografico e sociale da cui gli inquilini dei ricchi appartamenti ricavano il loro benessere, il loro sfoggio di tavole imbandite per un cenone natalizio, cui il libretto non fa cenno, ma che la sensibilità di Troisi e di Lavalle sembrano contrapporre alle ristrettezze dei protagonisti, senza però cadere in populismi e oleografie.

Dario Ascoli

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