A Bologna “Così Fan Tutte” chiude la trilogia Mozartiana di Alessandro Talevi

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Ad abituarsi bene si fa presto. Non avevamo fatto a tempo ad esternare entusiasmo per “Un ballo in maschera”, dichiarandolo come miglior spettacolo di stagione che arriva questo “Così fan tutte” a scompigliare le carte. Al diavolo le classifiche. Anche perché avevamo molte aspettative per questo capitolo finale della trilogia mozartiana firmata Alessandro Talevi  (Don Giovanni, Le nozze di Figaro ).

Per un regista – più che per gli interpreti – il Così fan tutte è sempre un terreno scivoloso per il carico retorico e morale che si porta dietro. Si rischia sempre di calcare la mano di troppo progressismo o – peggio – di ideologizzare alcune questioni sociali. Tant’è che il libretto di Lorenzo da Ponte non ha avuto sempre vita facile, praticamente dimenticato in periodo romantico e somministrato con il contagocce in epoche successive. Quante Così fan tutte hanno dato seguito ai frequentatissimi Don Giovanni? Lo squilibrio numerico non è di certo motivato dal valore musicale, uguale – se non superiore – ai due capitoli che lo precedevano.  Ma la scuola degli amanti è un viaggio psicoanalitico ante-litteram sul meccanismo di aspettative reciproche e consuetudini sul filo del non detto che stritolano i rapporti di coppia. Il tradimento (reciproco) è solo la miccia che detona il meccanismo drammatico.

Fortunatamente Talevi ci risparmia una rilettura ideologizzata del testo a favore di un intelligente, sensibile ed erudito approccio al tema.  Lo fa scegliendo un’ambientazione beat con una sagace invenzione scenica che permette – d’un tratto – di portare i protagonisti in un metaluogo avulso da ogni convenzione sociale dove tutto è concesso. Qui, Don Alfonso è una sorta di santone che conduce i protagonisti in un percorso di ricerca interiore. Come a dire che vantarsi della fedeltà della propria donna senza conoscerne i più reconditi pensieri è pratica stolta. Sarebbe come affermare di conoscere ciò che non si sa. Lo stesso vale per le donne, che sembrano inviluppate in un rapporto che viaggia sui binari della consuetudine. Aver ambientato la scena su un’isola, poi, è scelta dirompente: il luogo diventa una sorta di spazio franco dove essere se stessi fuori dalle consuetudini sociali. Qui l’inganno diventa reale ed il reale fasullo. “Ogni uomo mente ma dategli una maschera e sarà sincero” avrebbe detto Oscar Wilde un secolo dopo. Non si preoccupino gli amanti dei finali a lieto fine: alla fine i matrimoni si faranno. Se avesse voluto essere indulgente, Da Ponte avrebbe potuto quantomeno costruire l’intrigo mantenendo le coppie originali, sebbene nell’inganno del travestimento. Invece l’approccio scambista rompe lo schema del tradimento non tradimento di una certa letteratura medioevale. Riscegliere il proprio partner – sebbene sotto mentite spoglie – avrebbe di fatto riconfermato l’amore iniziale e reso tutto un po’ indolore. Invece, in Così fan tutte gli amanti si invertono e consumano un amore fugace e passionale. Alla fine, si ricompongono gli amori originali, sebbene animati di nuova e cruda consapevolezza.

La sagace direzione di Martijn Dendievel è una manna dal cielo. Il direttore riesce a proporre tutti i livelli che sostengono la vicenda giocosa, senza sacrificare la profondità di lettura in favore di un registro o troppo giocoso o troppo retorico. Aver equalizzato il suono a favore degli ottoni riafferma l’approccio avulso alla retorica dell’accoppiata direzione/regia. E’ un sentire di testa dove la musica risponde a completo servizio della parola. Dalla dosatura misurata delle sezioni di archi emergono chiare le voci mentre i corni – più in evidenza del solito – danno colore al dramma. Dal podio, anche la scelta di tempi e dinamiche ribadisce una musica a servizio dei cantanti. Introspettivo.

Parlando del cast, leggere il nome di Mariangela Sicilia in cartellone, ci fa spuntare sempre un sorriso. Anche questa volta; la sua Fiordiligi incanta, riuscendo a materializzare il complesso mondo interiore del personaggio. E’ sempre un piacere frapporre i nostri timpani alla dolcezza corposa del suo timbro levigato. Magistrale il rondò Per pietà, ben mio perdona del secondo atto.  Materica, invece, la voce di Francesca Di Sauro, che avvolge la parte di Dorabella con plastica argilla. Una vocalità così bruna e calda è un piacere all’ascolto. Bene anche gli uomini. Vito Priante è un Guglielmo a cui riesce semplice e spontanea ogni insidia della parte.  All’udir il Tradito, Schernito ci siamo innamorati del Ferrando di Marco Ciaponi (complice la carezzevole bacchetta di Dendijevel) . Bene anche la complessa Despina di carattere di Giulia Mazzola e l’oracolare Don Alfonso di Nahuel di Pierro. Ottimo (al solito) il lavoro del coro diretto da Gea Garatti Ansini e solida la prova di Nicoletta Mezzini al Fortepiano.

A voler esser pignoli sull’annosa questione dei tagli, anche questa volta qualche sforbiciata qui e lì al testo ha lasciato all’immaginazione dello spettatore qualche passaggio cruciale, ma è pur vero che l’equilibrio tra durata/cast e recita è sempre complicato. Toccherà farsene una ragione. Abbiamo dato cronaca della recita del 29 Maggio.

Non ci sarebbe potuto essere modo migliore per salutare il nuovo Soprintendente Elisabetta Riva a cui passa il compito di mantenere alto il livello. In bocca al lupo.

Ciro Scannapieco

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