Quando si esce dalla sala come un pugile suonato. Al TCBO il Trovatore di Robert Wilson

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Fosse stato lì l’avrei immaginato nel retropalco compiacersi in un affilato sorriso beffardo. Avesse avuto i baffi di certo ne avrebbe spinto la punta all’insù, stretta tra il pollice e l’indice, quasi ad autocelebrarsi. Talvolta il confine tra l’esposizione di una visione personale e la provocazione è così labile che ci si muove come su un filo.
Se avessimo fatto nostro l’adagio consumista per cui il Cliente ha sempre ragione avremmo dovuto bocciare la regia senza alcun ripensamento. Almeno sentendo, nell’ ordine in cui li riporto, i fischi, le urla, gli insulti, le risate e qualche crisi epilettica di minore entità provenire dal loggione. E’ stato già un miracolo che si sia riusciti a iniziare il terzo atto senza ricorso ad un TSO per placare gli Ultras verdiani più facinorosi. Fortunatamente, invece, il Cliente non ha sempre ragione e nella sua battuta di caccia al volatile il nostro Bob ha impallinato tutti i più rumorosi fagiani appollaiati nelle zone più alte del massimo felsineo con l’arma della provocazione. Saranno più fagiani o più pollastri per il modo in cui sono caduti nel tranello?
Eppure, immagino che questo pubblico così attento alla verginità della propria moralità artistica abbia dato uno sguardo al cartellone prima di cimentarsi in una visione che potesse macchiare irrimediabilmente la tela intonsa del proprio animo. Robert Wilson è Robert Wilson, permettendomi una tautologia di steineniana memoria, e non ci si aspetta altro da uno che ha dichiarato qualche anno fa –mettendo in scena l’Edipo –: “voglio fare uno spettacolo al tempo stesso molto antico e molto contemporaneo. Io lo vedo come un cheeseburger. C’è il pane, la carne, il ketchup, la cipolla, il formaggio e ancora il pane. Ingredienti che messi assieme acquistano forza. Il teatro per me è mettere insieme tanti elementi differenti in una struttura che dà loro più forza. Una struttura molto precisa: ci sarà un prologo, un epilogo e un centro con temi accostati per contrapposizioni perché l’opera attraverserà con oggetti, parole, musiche epoche diverse. Ed è proprio la loro diversità a far acquistare forza e chiarezza all’insieme. Ecco perché dico che sarà un Edipo transculturale e transtorico”.
Per questo sono così certo che avrebbe sorriso compiaciuto. Per chi ama la trasgressione le urla valgono più di mille applausi. Uno a zero per lui.
Il regista americano è quanto di più lontano si possa pensare da un classicista ortodosso. Saremmo rimasti veramente delusi –invece- se da uno come lui, che ha collaborato con William S. Burroughs, Allen Ginsberg, Tom Waits, David Byrne e Philip Glass e che ha vinto un Leone d’oro alla biennale di Venezia, fosse venuta una regia devota alla tradizione. Fortunatamente non è andata così, checché se ne dica, se ne urli e se ne strepiti.
Interessante la scena, una scatola antracite spoglia e tetra i cui spigoli del pavimento, quando si illuminano di una forte luce a led, accecano lo spettatore contrastando ogni cromia. «La prima cosa che faccio nelle prove è illuminare la scena: senza luce non c’è spazio. Per illuminare un mondo che Verdi ha descritto così buio, c’è bisogno di luce per renderlo ancora più buio». Interessante.
Per dovere di cronaca, quella che è andata in scena a Bologna è la versione ridotta di un allestimento realizzato da Wilson per Le Trouvère del Teatro Farnese di Parma nell’ambito del Festival Verdi 2018. Di certo la versione francese dell’opera ricca di coreografie e balletti si prestavano più del libretto italiano ad una visione registica così estrema. Ma anche a Parma furono fischi: due a zero per Bob.

Chiaroscuri anche per quanto concerne la compagnia vocale. Diciamolo, non abbiamo registrato sbavature da far accapponare la pelle ma una sensazione costante, dall’inizio alla fine che “si poteva fare qualcosa in più”. Il Manrico di Diego Cavazzin, alterna buone prove a momenti più incerti così come Cristina Melis che ci restituisce un’Azucena impetuosa ma un po’ maleducata in alto.
Decisamente più convincente Marta Torbidoni nei panni di Leonora. Il discorso- comunque- vale per tutto il cast, dal Ruiz di Cristiano Olivieri, al vecchio zingaro di Nicolò Donini, passando per la Ines di Tonia Langella al Ferrando di Marco Spotti e al Conte di Luna di Vasily Ladyuk. Bene ma non benissimo. Sul podio l’israeliano Pinchas Steinberg.
Alla fine applausi educati ma non sinceri sanciscono una cordiale pace dopo il parapiglia dell’intervallo in cui è andata in scena una coreografia dal tema pugilistico ripresa dalla versione parmigiana. Sarà stato il tema marziale di questo interludio ma alcuni animi tra il pubblico si sono accesi, e non poco.
Eppure dalla fantasia di Robert Wilson non ti aspetti nulla di rituale e criticarne le provocazioni è come fare il suo gioco. Non si nega qui il diritto di critica ma si auspica una critica consapevole.
In cartellone al TCBO non c’era il Trovatore, bensì il Trovatore di Robert Wilson: quello è, quello si è visto.
Ridurre la regia ad un aspetto secondario cucito a doppio filo con la tradizione sarebbe come mortificare gli sforzi di chi continuamente prova ad attualizzare un linguaggio universale qual è quello operistico. Detto ciò è possibile criticare tutto con la ferocia di una mente sagace riducendo l’interrogativo alla domanda: ma questo allestimento ci è davvero piaciuto?
Difficile dirlo, certamente ha acceso la mente più di una riproposizione incartapecorita dei soliti cliché. Forse è mancata un po’ di forza musicale ad interpreti ed orchestrali e qualche cantante più a proprio agio con la parte. Vuoi vedere che l’origine del problema non sia nell’incidente pugilistico o la regia ma la musica stessa? Uscendo dal teatro si sentivano solo commenti su quanto fosse dissacrante il regista o quanto fosse stato mortificato Verdi da questa recita. Che barba, che noia. Che noia, che barba. Fosse un incontro di Box, potremmo dire che Bob ce le ha suonate di santa ragione. O, se preferite, Tre a zero per lui.

Ciro Scannapieco

Foto Rocco Casaluci ©

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