Anche senza orchestra, l’ «Elisir» del Comunale di Bologna rallegra il pubblico

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Immagine della messa in scena di Trieste

«Quando si vede il sovrintendente sul palco non è mai una buona notizia» soprattutto se il discorso continua con «…e capiremo chi vorrà abbandonare la sala»
Ecco qua. Che le parole di Macciardi non fossero foriere di buone notizie lo si era capito da subito. Già entrando nel Foyer del Nouveau, infatti, il brusio non lasciava presagire buone notizie. Nell’aria aleggiava lo sciopero indetto dalla Fials per un contratto fermo dal lontano 2003- effettivamente tanto, troppo, tempo. Tanto tuonò che piovve e dell’orchestra in buca nessuna traccia.
Ci ha sorpreso, però, la scelta di portare in scena «L’Elisir d’amore»  in forma di antepiano.
Ad esser sinceri, non senza perplessità. Proporre il Donizetti di «Una firtiva lagrima»  sostenuto dal solo pianoforte è parso un contentino così striminzito che ci siamo posti la domanda se fosse giusto scriverne. Quando, poi, abbiamo visto il giovane direttore Diego Ceretta sul podio di un’orchestra assente ne abbiamo provato anche un po’ di pena.
Nel punto più basso di questo ipogeo musicale la tentazione di andar via era veramente forte. E non era stata suonata ancora nemmeno una nota.
Con il senno del poi sappiamo che avremmo fatto molto male. Questo spettacolo rattoppato, al netto di tutte le sue mancanze e tutti i suoi intrinseci difetti contingenti all’assenza dell’orchestra, alla fine ci è piaciuto. Ma perché?
Perché ‘l’ambientazione circense di Victor Garcia Sierra è vincente in ogni sua scelta, dai quadri di Botero alla trasposizione fuori dal palco di alcuni momenti. Non è un allestimento ricco ma colorato, vivace e accattivante. Vincente.
Perché l’idea dei mimi non è di certo originale ma è coinvolgente. Dove si correva il rischio di un certo distacco per la mancanza dell’orchestra, il lavoro sulla scena ci ha messo più di una pezza.
Perché non sparate sul pianista. Cioè, le prove sono un conto, ma per fare la stessa roba difronte ad un pubblico pagante per tre ore di fila ci vuole del gran pelo sullo stomaco. Da qui a dire che da domani per l’opera basti un pianoforte verticale (pure un po’ sgangherato) ce ne passa. Sarebbe disonesto intellettualmente. L’assenza dell’orchestra si è sentita, eccome. Però chi era seduta sullo sgabello merita così tanta stima e tanti applausi (come giustamente tributati dal pubblico al termine dello spettacolo) che sarebbe ingeneroso puntare il dito sulle mancanze. L’unica nota stonata è stato non annunciare il nome della valorosa musicista che ha reso possibile tutto ciò.
Perché i cantanti, almeno quelli nei ruoli principali ci sono piaciuti. L’Adina di Karen Gardeazabal ha un bel solfeggio che propone con molta elasticità. Il timbro è piacevole, buona l’emissione.  Marco Filippo Romano è un Dulcamara convincente. Nel senso che riesce attorialmente a sublimare tutti i tratti dell’imbroglione e a sostenere il personaggio con una buona esecuzione canora. Ottimo Juan Francisco Gatell, che riesce a riproporre gli aspetti più puerili di nemorino grazie ad un canto pulito ed elegante nel fraseggio. Molto bello il timbro con quella “s” che di tanto in tanto marca il colore della pampa. La furtiva lagrima, nei panni di Pierrot, è stata interpretata con maestria e intensità.
Perché ha zittito, il concettualista che ha per vezzo di sofisticare più per esercizio che per necessità.
Perché fortunatamente tutte le altre recite sono andate in scena normalmente. E – come inteso dalle parole del soprintendente- per i presenti muniti di biglietto, restava garantita l’ospitalità gratuita anche per una delle date successive. Quel che è giusto è giusto.
Perché… in fondo Questo è «l’Elisir d’Amore»  e- si sa- «Ei corregge ogni difetto».

Ciro Scannapieco

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