Ci sono serate in cui un titolo che siamo abituati a pronunciare con la condiscendenza del “buffo” si innalza a rivelazione. Questa Fille du Régiment scaligera è stata esattamente questo: un ritorno alla verità più raffinata del comico donizettiano, che è prima di tutto arte del gesto misurato, scavo nel ritmo interno della parola, attenzione per il sorriso che sorge dall’intelligenza, non dalla caricatura.
La “rifinitura” di stile è venuta soprattutto dalla buca. Evelino Pidò, con l’Orchestra del Teatro alla Scala, ha cesellato la partitura con una precisione da orefice e un senso della frase quasi cameristico: tempi sorretti da un’eleganza che non soffocava mai l’impulso ludico, dinamiche calibrate su un’idea di leggerezza come tensione interna, non come superficialità. Raramente, in quest’opera, si ascolta una concertazione che fa emergere con tanta chiarezza l’intelaiatura armonica e il contrappunto nei numeri d’assieme.
Il Coro, preparato con disciplina da Alberto Malazzi, ha risposto con un fraseggio collettivo terso e sorprendentemente teatrale.
Sul palcoscenico, la regia di Laurent Pelly, curatissima nella ripresa di Christian Rath, ha mantenuto intatto il suo equilibrio miracoloso: un’ironia ricamata con sottilissima sprezzatura, una gestualità non mai gratuitamente esibita, ma sempre al servizio del ritmo musicale.
È il riso “illuminista”, non il riso fisico: e anche questo, oggi, è diventato un valore culturale.
E le voci, i fuochi d’artificio della serata, hanno dato ragione a questo impianto altissimo. Juan Diego Flórez è apparso tonico, luminoso, persino aristocratico nel trasformare l’acrobazia in discorso. Il suo Tonio esiste nell’eleganza dell’articolazione prima ancora che nel virtuosismo: gli acuti, perfettamente a segno, sono stati momenti di musica, non di atletica.
Julie Fuchs, Marie soprano di raffinatezza quasi inaspettata, ha coniugato la vivacità vocale con una misura teatrale squisita: timbro terso, parola affilata, una malinconia lieve come una smagliatura sotto la seta del primo atto. È una Marie che non “interpreta” la fragilità: la possiede.
Pietro Spagnoli ha interpretato un Sulpice dall’autorevolezza sorridente, che ricordava quella scuola italiana del “comico nobile” ormai quasi estinta: quella in cui si ride di ciò che è umano. E una menzione speciale merita il duo femminile aristocratico: Barbara Frittoli, Duchessa di impeccabile arte attorale, e Géraldine Chauvet, Marchesa di gusto timbrico raffinato, entrambe capaci di non tradire mai la misura che Donizetti pretende proprio nel paradosso.
I ruoli minori, Pierre Doven, Emidio Guidotti, Federico Vazzola, Aldo Sartori sono stati cesellati con cura rara, come fossero minuscoli cammei in un cofanetto: non riempitivi, ma tessere necessarie del mosaico.
Questa Fille du Régiment è stata dunque molto più di una brillante serata di repertorio: è stata una dichiarazione di poetica.
Ha ricordato che la comicità di Donizetti è fatta di grammatica, prosodia, distanza intellettuale.
E quando tutto questo viene restituito al suo livello più alto, come ieri, la leggerezza non è evasione.
È stile. È cultura. È musica che sa essere luce.
Gabriella Spagnuolo